Notte di sogni e di Coppe di Campioni – Una storia Romanista

Andrea Lambertucci racconta la storia di un'impresa favolosa. Il trionfo Romanista di un popolo che non ha mai smesso di sognare

La Roma ha vinto contro il Barcellona, ma questo lo sanno tutti. La Roma è la terza squadra che sia mai riuscita a rimontare 3 gol di svantaggio in un doppio confronto di Champions League, e questo forse lo sanno poche persone. Il primo club a riuscirci era stato il Deportivo La Coruña, che aveva rimontato clamorosamente il Milan campione in carica: 4-1 per i rossoneri a San Siro, 4-0 al ritorno.
La seconda squadra, invece, era stata proprio il Barcellona. E per me, per un Romanista follemente innamorato di questa squadra “gialla come er sole e rossa come er core mio”, la storia della più grande impresa europea della Roma nasce proprio dalla serata in cui i catalani hanno ribaltato i francesi del Paris Saint-Germain.
Perché noi Romanisti siamo Romanisti sempre, anche quando siamo in fila per il controllo passaporti all’aeroporto Domodedovo di Mosca.
Roma-Barcellona, per me, nasce l’8 marzo 2017. E se ne avrete voglia, vi accompagnerò nel mio personalissimo racconto dei 13 mesi più Romanisti della storia del calcio.
Quell’8 marzo ero a Roma, e mi svegliavo con la malinconia di chi deve lasciare casa. Dovevo tornare a Mosca, perché lì studiavo e lavoravo in quel periodo. Due voli, con scalo a Monaco di Baviera. Una foto con due giocatori del Bayern (avevano giocato in trasferta chissà dove) e via di nuovo verso Mosca. Riguardo alla mia esperienza in Russia, per ora, sappiate solamente che il check dei passaporti è una pratica piuttosto lunga. Entro nella fila dei controlli e vedo che Barcellona e PSG stanno all’88esimo minuto. 3-1. Il Barça è fuori dalla Champions. 8 minuti dopo, due ragazzi russi cominciano a gridare che i catalani ce l’hanno fatta. Il miracolo è avvenuto. 6-1.
Mentre tornavo nel dormitorio dell’Università, il tassista mi assillava con gli elogi verso Messi e il Barcellona. Quanta noia.
A noi Romanisti piace la Roma. A noi piace parlare della Roma. Io pensavo solo alla gara contro il Lione del giorno dopo. Chemmeneimporta del Barcellona. Io pensavo al giocatore più forte del mondo che stava per appendere gli scarpini al chiodo, e al fatto che purtroppo quel giorno sarei stato in Russia.
Al mio “io sono della Roma” il tassista scoppia a ridere. Bravo. Niente mancia.
Il giorno dopo raggiungo il pub di Lubyanka dove si raduna il Roma Club. Perdiamo 4-2. “Dai, settimana prossima li mangiamo”. E invece no. 16 marzo 2017, siamo fuori dall’Europa League, con una storia tipicamente Romanista, ovvero un gol regolare annullato a Dzeko.
Per farla breve, non vinciamo nemmeno lo scudetto. Ma al Roma Club c’è sempre tanta gente che viene a tifare Roma. Quelle due ore sembra di passarle a Testaccio, perché i fratelli del ‘Vecchie Maniere’ sono davvero tanto tanto Romanisti.
Poi arriva Roma-Genoa. Il giorno in cui la storia cambia per sempre. Non posso andare al pub. Ho un esame. Finisce alle 15.45. In Italia sono le 14.45. Ho giusto il tempo di farmi una doccia e correre a casa del mio amico siriano, che mi ospita con la sua famiglia per vedere l’addio al calcio del più grande giocatore della storia.
E lì, quando siamo sul 2-2 e ci vediamo già condannati ai preliminari, mentre i cultori del mainagioismo sono pronti a far scorrere effluvi di inchiostro maledetto e gli avversari di sempre si preparano a un crudele sfottò, ecco che la Roma cambia la sua mentalità. Ecco che la storia prende la strada giusta. La stiamo vedendo su un canale arabo, con un servizio che è come SkyGo, ma che purtroppo lagga pesantemente.
All’Olimpico è il minuto 93, per me siamo ancora al 90esimo. Zein, che sta controllando i risultati sul telefono, vuole farmi gioire. “Fratello, ha segnato la Roma”. Poi sgrana gli occhi. Io non mi muovo. Noi siamo la tifoseria dei San Tommasi, che non credono se non vedono. Noi non ci muoviamo. Prima si vede il gol, poi si esulta. Dentro di me una voce mi diceva “non ti mentirebbe mai, alzati e fai festa”, ma un’altra mi diceva “capace che ce lo annullano, stai a vedere”. Passano tre minuti. Perotti. Gol.
“Voi siete pazzi”, mi dice Zein. “Noi siamo innamorati” rispondo io.
Poi la festa per Francesco Totti. La leggenda, la mitologia del calcio, la fine momentanea di un racconto d’amore che non finirà mai del tutto. Come ha scritto Tonino Cagnucci, direttore de Il Romanista e Romanista nel vero senso della parola, quel giorno il mondo ha visto “un dio laico chiedere aiuto all’interno di uno stadio”. Totti grida “Vi amo”, ognuno di noi grida “Ti amo”.
Poi il silenzio, Spalletti che se ne va, Salah che va al Liverpool.. L’estate, per tornare a Roma e vivere ancora da Romanista, e le piccole gioie di una vita giallorossa, come quella di vedere una bandiera della Roma sul lago di Lochness in Scozia, o incontrare altri tifosi a Ostia. Tante cose, tante e belle.
Poi la Roma che arriva prima nel girone della morte in Champions, contro Chelsea e Atletico Madrid (eliminato). E subito dopo, quasi a volerci ricordare che non tutte le ciambelle escono col buco, due mesi brutti, bruttissimi. Ed ecco tornare le critiche, le chiacchiere da bar, le voci maligne. Si fa a gara a chi sbrana più brandelli di una Roma dilaniata.
Si vola a Charkiv per gli ottavi di Champions. 2-1 per lo Shakhtar.
Al ritorno però vinciamo noi, 1-0.
Io nel frattempo di Romanisti ne ho conosciuti parecchi. Di quei Romanisti con la “R” maiuscola, che questa squadra la amano come fosse una figlia. Ma questa storia, mi scuseranno i lettori, me la tengo per me. Per adesso sappiate solamente che non guardo più tante partite a casa con mio padre, altro vero Romanista.
Per i quarti peschiamo il Barcellona. Proprio loro. Quelli della rimonta impossibile. I primi nel Ranking Uefa. I fenomeni. Gli extraterrestri. Messi, il più extraterrestre di tutti. Il Romanista, però, quello con la “R” maiuscola, dice semplicemente “Viecce” e attende l’inizio di aprile.
All’andata finisce 4-1. Due autogol: Manolas e Capitan De Rossi. Due rigori negati. Ingiusto. Maligno.
Poi il sabato perdiamo contro la Fiorentina.
I tifosi normali nemmeno la guarderebbero la gara di ritorno. I Romanisti invece riempiono lo stadio, vanno a giocarsi il 3-0, credono fermamente nel miracolo. Perché questo amore è stato molte volte doloroso, ma non ci ha mai fatto muovere dal nostro posto. Perché queste sono “notti di sogni e di coppe di campioni”, scriveva Venditti. Perché queste sono le notti dell’unico grande amore.
Ed ecco che De Rossi pesca Dzeko tra le linee della difesa catalana. Da Sarajevo a Roma la strada è lunga, ma dal suo piedone alla rete intercorrono solamente pochi centimetri. 1-0. Edin da Sarajevo, colui che ha rinunciato a tanti soldi per rimanere nella “sua” Roma. In questo momento la città che fu impero è ai piedi di un ragazzone biondo venuto dall’est.
Poi il dominio. La squadra più forte del mondo è ancora in vantaggio per 4-2, ma la palla la sfiora appena. A pochi chilometri dallo stadio Olimpico c’è una cosina chiamata Colosseo, dove un tempo i gladiatori lottavano per diventare liberi, per diventare leggende. Allo stadio questa sera una squadra di gladiatori moderni lottano per liberare noi, per diventare leggende dello sport più bello del mondo.
E il dominio culmina nel rigore del 4-3, che l’arbitro non stava dando (e ti pare?) e che De Rossi, il Capitano Romano e Romanista che ha sofferto per una settimana le pene dell’inferno, piazza alla sinistra del portiere blaugrana.
Poi il delirio. Un turco crossa per un greco. Ormai vale tutto. “Un dio greco tra i 7 colli di Roma”, parafrasando un commentatore inglese. L’esultanza fuori controllo. Il delirio davvero. Io ero a casa. Avevo le mani nei capelli, perché il cuore non lo trovavo nemmeno più. Mia madre era felicissima. Mio padre immobile. Lui ne ha viste tante. Ne ha viste troppe. Lui ha visto il 3-1 di Vavra dello Slavia Praga, ha visto perdere una finale all’Olimpico contro il Liverpool ai rigori, ha visto il gol di Turone, ha visto la Rometta, ha visto Falcao e Ago, ha visto la storia di questa squadra e quindi sa benissimo che ancora questa impresa non è compiuta.
Passano 10 minuti. 10 minuti per voi persone normali, per noi Romanisti sono anni. Per me sono 24 anni. Tanti quanti ne ho oggi. Sono l’espulsione di Mexès, il gol di Pazzini, sono Manchester, Bayern e lo stesso Barcellona. Sono tutti i dolori che questo amore mi ha fatto soffrire. Sono tutti i rospi che ho dovuto ingogliare, sono le panchine sui campi di periferia, sono la solitudine di essere un figlio unico, sono le piccole cicatrici che rimangono nel cuore e le piccole tristezze che in questa vita purtroppo capitano a tutti.
E dopo questi 24 anni, dove essendo Romanista tutto sommato ho solamente tanti motivi per ridere e veramente pochissimi per piangere, arriva un triplice fischio. Mi getto in ginocchio, mentre piango come un bambino, sulla gamba di mio padre, che resta seduto sulla poltrona. Piange anche lui, ma non lo ammetterà mai. Piange mia madre. Piange anche il mio cane. Urlo dal cuore “grazie”, che può essere un “grazie Roma” così come un “grazie papà”, “grazie mamma”, “grazie mondo”. Grazie per essere Romano e Romanista. Grazie perché, come dice sempre Cagnucci, tutti gli altri si possono tenere strette le loro vittorie acchittate o meritate ma non Romaniste, mentre noi vogliamo solamente queste, poche ma stupende, “Perché quando la Roma vince così vince per sempre”.
E la Roma ha vinto. E i Romanisti hanno vinto. E Pallotta si è gettato nella fontana. E noi siamo stati a Testaccio, nella casa della Roma vera, per festeggiare fino a tarda notte. E il giorno dopo avevamo il cuore colmo di gioia e di orgoglio. “La Roma è vita, la Roma è tutto”, mi ha detto una signora ieri al mercato. Mio padre ha fatto pace con tutto il passato che aveva già perdonato. Io ho fatto pace con tutte le piccole delusioni della mia vita, che da Romano e Romanista è sempre e costantemente un trionfo.
“Io sono della Roma” ha scritto la prima pagina de Il Romanista mercoledì e io andavo a chiedere alla gente “Perché sei della Roma?”.
Ora ve lo dico io.
Perché quando nasci a Roma e sei tifoso della Roma, vivi in un trionfo costante e imperituro, perché “chi tifa Roma non perde mai”, perché hai milioni di fratelli che credono e sperano con te nella vittoria per avere una ragione legittima per festeggiare insieme. Perché la Roma è vita, perché la Roma ti insegna ad amare. Perché ogni nostro romanticismo (chiediamoci il perché dell’etimologia) nasce e cresce con la Roma, per sfociare negli uomini e nelle donne che siamo.
Perché quando ero in fila per il controllo passaporti all’aeroporto di Mosca, al 6-1 del Barcellona ho pensato “Chemmeneimporta, io sono della Roma”. Le vittorie le lasciamo agli altri. Noi siamo della Roma, noi viviamo solamente per i trionfi.
E ora tutta l’Italia ci spinga verso il trionfo, così come ci ha spinto verso la vittoria contro il Barcellona, vi invito personalmente alla festa a Testaccio. Ora c’è il Liverpool e spero che mio padre possa fare pace anche con quella maledetta finale. Perché quel 30 maggio 1984 all’Olimpico si è interrotto un sogno di trionfo, e il 2 maggio 2018 potrebbe ricominciare, sperando che il vento finalmente soffi dalla parte giusta.
A ogni modo, noi questa squadra la ameremo sempre e comunque.
La Roma ha vinto. La Roma “ha vinto per sempre”. La Roma è di tutti. La Roma non si discute, si ama. Forza Roma.