“Wonder Wheel”: Woody Allen ma non troppo

Recensione del dramma psicologico firmato dal regista più prolifico di sempre, con una Kate Winslet sublime.

Sono poche le certezze nella vita. Come la morte, o le tasse. O l’annuale film del regista newyorkese, che nonostante avanzi con l’età continua a dare vita alla propria arte, quanto e più di prima. Instancabile. Probabilmente anche per esorcizzare i grandi dilemmi esistenziali che lo perseguitano da sempre e che sono ricorrenti nelle sue opere.
E quindi, esattamente 40 anni dopo il capolavoro “Io e Annie”, Woody Allen torna a Coney Island, New York, negli anni ‘50, per raccontarci una storia di forti passioni, sogni infranti e fugaci speranze.
“Wonder wheel” è la storia di Ginny, interpretata da una strepitosa Kate Winslet, cameriera disillusa, depressa e nevrotica. Succube di un marito violento e alcolizzato (buona anche la prestazione di Jim Belushi), che si rivela progressivamente altruista e sinceramente legato ai suoi cari. Impotente verso un figlio piromane e fuori controllo. Messa a dura prova da un’emicrania lancinante e da un rapporto conflittuale con la figliastra, quest’ultima peraltro ricercata dai gangster. La svolta sembra avvenire grazie ad un nuovo amore. Ma come insegna la tragedia greca, spesso menzionata nel film, il Fato tesse trame troppo complicate per i comuni mortali, si prende gioco di loro. E, alla fine, non risparmia nessuno.

Ginny sognava di diventare attrice e, nonostante avesse ormai riposto le proprie speranze, sembra risorgere, mentre parla dei suoi errori, seduta in spiaggia con il suo amante, Mickey, illuminata da una luce (di un immenso Vittorio Storaro, direttore della fotografia che impreziosisce la pellicola) che la rende per un attimo, ma solo per un attimo, una persona nuova.
Woody torna al dramma, il dramma puro (in stile “Un tram che si chiama desiderio”), questa volta non smorzato (come al solito) dalla sua ironia tagliente, dalle battute di spirito. Ci parla di fallimento, di illusioni, di sogni infranti. Lo aveva fatto in “Blu Jasmine”(2013), e ancora prima in “Interiors” e “Un’ altra donna”. In questo film raggiunge un picco di struggimento e sofferenza, delineando un personaggio che sembra discendere dalla Medea di Euripide, che distrugge se stessa e chi le è vicino. Ginny è “consumata dalla gelosia”, continua a mentire a se stessa per essere felice, ma il Fato, vero motore dell’intera vicenda, non avrà pietà di lei.
“Non venire mai al mondo, può essere il più grande dei doni”. Così disse Sofocle; e lo dice anche lo stesso Allen in “Match point”. Lui ci crede veramente e cerca di convincere il pubblico, questa volta più di altre, proprio eliminando (quasi) del tutto l’elemento comico.

Dirigere un film all’anno rende più difficile costruire trame particolarmente avvincenti, questo è innegabile, ma è anche vero che quando è riuscito a sviluppare determinate intuizioni, Woody, ha realizzato veri e propri capolavori. E poi, nonostante abbia superato gli 80, continua ancora a rinnovarsi e a spaziare da un genere all’altro come se fosse nel pieno della carriera (e degli anni). Peculiarità dei geni. Noi possiamo solo sperare nel genio ed aspettare. Perché Woody Allen è imprevedibile e ha sempre un messaggio per il pubblico. Come lui stesso dice: “in conclusione, vorrei avere un qualche messaggio positivo da trasmettervi. Ma non ce l’ho. Vi accontentate di due messaggi negativi?”. Accontentiamoci.