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Disclaimer: non sono capace di fare recensioni. I Muse sono il mio primo amore musicale, la prima band che ho scoperto da ragazzina. Non riuscirei ad essere obiettiva nemmeno se si mettessero a fare cover di Albano e Romina.

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Il Day 1 dall’account Instagram ufficiale della band

Tutto è iniziato ad Ottobre 2014, quando è stato reso noto questo scatto, in diretta da Vancouver, a conferma delle voci che già dall’estate parlavano di un possibile settimo album per il trio di Teignmouth. Nel corso dei mesi si sono susseguiti un paio di account Instagram creati, tagli di capelli e cambi di look di dubbio gusto, foto e video come se piovesse -con conseguente hype dei fan alle stelle- fino ad arrivare ad oggi.

I Muse hanno dato alla luce Drones, un concept album che racconta la storia di un uomo vittima di un vero e proprio controllo mentale. Il suo è un viaggio alla ricerca dell’amore e della vita perduta, contro le forze oscure che l’hanno trasformato in una macchina insensibile, in un drone finalizzato alla distruzione. Ancora una volta il Bellamy complottaro con la passione per Orwell ha avuto la meglio. Il prossimo passo sarà aprire i comizi del Movimento 5 Stelle.
12 tracce, di cui 2 intermezzi, 56 minuti di musica da ascoltare tutti d’un fiato. Per questo è bene analizzare l’opera track by track.

Dead Inside appare come l’ultimo respiro dell’elettronica/pop sperimentale di The 2nd Law, pubblicato nel 2012. Basso e batteria creano un ritmo sensuale che rimane subito in testa, peccato per il bridge a poco più di metà canzone che fa tanto Madness 2.0, quasi a conferma dei riferimenti fatti al precedente album. Qui parte la nostra storia: il protagonista sta lentamente perdendo la sua umanità ed empatia.

Dopo un intermezzo, Drill Sergent, alla Full Metal Jacket, Psycho attacca con un riff che dal 1999 accompagna l’outro di Stockholm Syndrome nei live della band. Questo è stato il primo singolo estratto e che già al primo ascolto, nell’ormai lontano marzo, mi aveva lasciata un attimo perplessa: se la chitarra è stata in grado di mandarmi in visibilio -nonostante molti abbiamo urlato al plagio riferendosi a Roadhouse Blues dei Doors o a Personal Jesus dei Depeche Mode- non si può dire lo stesso del resto, canzone piuttosto ripetitiva.
Belli de mamma, ci avete intortati per mesi con la storia del “It’s gonna get heavy/It will be explicit” e poi il massimo dell’esplicito qua è un bel “Your ass belongs to me”. Ci state prendendo in giro? Aye, Sir!

Mercy è la chiara richiesta d’aiuto del nostro uomo ormai dronizzato. Le strofe ben ritmate e costruite ed un piano alla Starlight ci fanno immergere nella sua disperazione. Il pezzo è orecchiabile, quasi fatto apposta per la radio, forse anche troppo: il ritornello proprio non riesco a farmelo piacere, eppure l’ho canticchiato inconsciamente per giorni.

Con Reapers e The Handler entriamo nella parte centrale della storia. Due brani che mi hanno fatta inginocchiare ed urlare al cielo un blasfemissimo “Grazie Signore”. La prima è aggressiva, un tapping pauroso sulla chitarra, ritmo e cori distorti del bassista Chris ai limiti dell’isteria, e nonostante si ripresenti una certa ripetitività, un assolo non poteva certo mancare, anche se non stupisce più di tanto. La seconda rende finalmente giustizia a quel “ritorno al passato” che tanto ci avevano promesso: testo e basso trascinante, atmosfera cupa che mi ha seriamente dato i brividi, così come i falsetti di Matthew.
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the handler

The Handler

L’intermezzo di JFK è servito a dimostrarmi quanto un semestre di Academic English passato ad analizzare i discorsi dei presidenti americani mi abbia completamente traviata. E così come io mi sono liberata di quell’esame, con Defector anche il personaggio sta lentamente fuggendo dal male che lo aveva oppresso. Il riff non è malaccio, e nemmeno i cori alla Queen, ma nel complesso canzone monotona.

Revolt. Gesù mio. Tasto dolente. Musica e testo che trasudano pop e banalità ad ogni secondo, non basta certo una schitarrata a risollevarla. Come minimo sarà il prossimo singolo che ci martellerà per tutta l’estate. Amen. E quelle sirene ad inizio e fine canzone sanno troppo di filmetto americano pre-adolescenziale dove tutto deve per forza sembrare epico.

Fortuna vuole che si siano fatti perdonare con Aftermath, una ballad struggente che corona il ritorno alla vita e, ovviamente, la ritrovata fiducia nell’ammmore, di cui sentivamo tutti la mancanza. L’atmosfera fa molto Dire Straits ed il crescendo dell’intero pezzo, accompagnato da un complesso d’archi, direttamente dalle Officine Meccaniche di Milano, contribuisce a rendere questi 5 minuti e 47 un piccolo capolavoro.

Adesso la storia può dirsi compiuta, ma Matt, Dom e Chris sono stati così clementi con noi che, con The Globalist e Drones, ci regalano un finale alternativo. Il frontman ci spiega “Alla fine si hanno i fantasmi dei morti sconosciuti uccisi dai robot che non vedranno mai la giustizia e noi non vedremo mai chi sono”. Preparatevi, è arrivata l’Apocalisse a quanto pare.
La prima canzone è uno slalom lungo 10 minuti fra omaggi a Morricone ed alla chitarra dei Pink Floyd. Doveva essere l’erede di Citizen Erased, ma quel sound è ormai inesorabilmente lontano. L’intermezzo ci prova a rendere giustizia, con la santa triade chitarra-basso-batteria, peccato duri troppo poco. Una piccola perla, in ogni caso. Segue il secondo ed ultimo brano, cantato completamente a cappella, quattro tracce sovrapposte della stessa voce: come idea tocca il picco dell’originalità dell’intero album, non si può però dire la stessa cosa del testo.

In conclusione, ascoltare Drones è come farsi un giro sulle montagne russe, un sali e scendi continuo fra pezzi da brivido, altri ed alcuni decisamente no. Tutto sommato, il concept è stato sviluppato bene, la storia c’è e si fa spazio nelle nostre teste.
Tutte le polemiche scaturite dalla pubblicazione ad oggi sono dovute alle -forse troppo alte- aspettative dei fan, ma è bene precisare una cosa: i Muse hanno quasi 40 anni, ormai sarà difficile un ritorno alle atmosfere e sonorità di Origin of Symmetry o addirittura di Showbiz. I ragazzi son cresciuti, non hanno più ventanni ed i capelli colorati, hanno la pancetta ed una manciata di pargoli (quasi tutti del bassista, a dir la verità). L’unica cosa che ancora non li ha abbandonati è la passione, la voglia di sperimentare e la capacità di fare live coi controcoglioni. Forse la tecnica di sfornare un album ogni tre anni non funziona più come un tempo, ma finché continueranno su questa linea a me va più che bene. Stacce.

Anche per questo aspetto con ansia il 18 Luglio, e se non mi fanno Plug in Baby i droni glieli lancio sul palco.
Ci becchiamo a Capannelle. Io sarò quella esaltata come una dodicenne, come 7 anni fa, quando li ho ascoltati la prima volta.

you win or

You know nothing Matthew Bellamy