Scrittura e viaggio – tra noto e ignoto, curiosità e ritorno

articolo originariamente presente su universitarianweb.com

“La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l’angolo che svolterai.” Così scrive Italo Calvino nel Cavaliere inesistente.

C’è un nesso di relazione e reciprocità strettissimo tra scrittura e viaggio: non solo esiste un vero e proprio genere letterario in cui autore e viaggiatore coincidono, ma il viaggio stesso è un tema letterario ravvisabile in ogni testo, poiché ciascuno scritto contiene in sé un cammino. L’inizio di ogni racconto è sempre a partire da uno spostamento, da un cambiamento, dal modificarsi di una situazione abituale, consolidata; se i due bravi non avessero sbarrato la strada a Don Abbondio ingiungendogli che “questo matrimonio non s’ha da fare”, I promessi sposi non sarebbero mai cominciati. Nel momento in cui si verifica un cambiamento, un distacco da una data condizione, l’inizio diviene inizio e la storia può essere narrata. Il viaggiatore è colui che per definizione marca una distanza, sia spaziale (dal luogo dove è a quello in cui va) sia temporale (tra passato e futuro). Il nesso privilegiato con la scrittura nasce proprio da questo: essa è il mezzo della comunicazione a distanza nello spazio e nel tempo, compiendo un viaggio dall’autore al suo pubblico.

Il primo grande viaggiatore è certamente Ulisse, figura omerica e poi dantesca. E’ interessante notare come i due personaggi siano paradigmatici della vita di ogni essere umano: il nostro animo è spinto da una vocazione domestica da un lato e dall’insaziabile voglia di conoscere dall’altro. L’Ulisse omerico vuole tornare a casa e il suo viaggio è quello che in greco prende il nome di nòstos, cioè viaggio di ritorno; l’eroe dantesco, invece, è animato da una sete di conoscenza dell’ignoto, da una curiositas che lo porta a desiderare nuove esperienze e a varcare le colonne d’Ercole. Il viaggio è al tempo stesso avventura e nòstos; la nostra vita si gioca nel precario equilibrio tra la smania e l’irrequietezza di conoscere e vedere e godere del mondo intero e il naturale istinto a radicarsi, esser tranquilli, rimanere a casa.

A questo punto occorre mettere in luce una differenza fondamentale: esistono partenze per arrivare in un luogo e in cui, quindi, prevale il desiderio del raggiungimento della meta, e altre che hanno come scopo e piacere il viaggio stesso, il cammino. Aristotele usa il termine peripezia, il latino preferisce il verbo errare: Ulisse ed Enea errano nel Mediterraneo, poiché lo spostamento da un luogo ad un altro non avviene in modo lineare. La peripezia è un evento positivo o negativo? Dipende. Noi moderni tendiamo ad avere un’idea per cui errare dà piacere proprio in quanto il viaggio è privo di una meta, ma le peripezie di Ulisse sono un continuo di sofferenze, poiché egli è costretto a non tornare a casa a causa della maledizione di Poseidone. Al contrario, i cavalieri (non a caso) erranti dell’Ariosto ricavano il proprio piacere non dalla meta, ma dalla peripezia e dal viaggio.

La Bibbia inizia con la cacciata dall’Eden e l’entrata nel mondo del lavoro e della sofferenza: Adamo ed Eva sono i primi esuli dell’umanità. Tutti i cristiani condivideranno tale destino di espulsi da un paradiso a cui vogliono tornare. Non si tratta, forse, di una forma di nòstos? In modo uguale e molto diverso, Freud sosterrà che tutti gli uomini hanno avuto un’esperienza primaria di beatitudine nel ventre della madre e vogliono farvi ritorno.

Tornare a casa o scoprire l’ignoto? La distanza che viene marcata con il viaggio porta spesso ad uno spaesamento o straniamento, poiché l’uomo conosce l’altro e l’altrove, qualcuno e qualcosa di completamente diverso dalla sua realtà abituale. Colombo, ad esempio, arrivato nelle isole del nuovo continente, vede una natura rigogliosa ed estranea, che egli non riconosce e che genera in lui un sentimento di meraviglia e stupore (parlerà, infatti, di un Eden ritrovato). Questo spaesamento, però, viene pian piano assimilato, poiché Colombo deve comunicare le proprie scoperte attraverso una corrispondenza epistolare. Per poter parlare di qualcosa di così diverso deve renderlo noto: si tratta del processo di addomesticamento. La comunicazione dell’ignoto, cioè dello spaesamento, avviene riconducendolo a categorie note: ecco che la natura delle isole esotiche è come quella dei giardini dell’Andalusia. Colombo non solo parla del Nuovo Mondo nelle lettere, ma compie un altro gesto fondamentale, quando dà un nome a quei luoghi. L’atto di nominazione è un atto di appropriazione dell’ignoto e del diverso, che così può essere conosciuto ed utilizzato. Adamo, infatti, vede oggetti, animali e piante e dà loro un nome, appropriandosene. L’atto di nominazione svolto da Colombo è anche il primo gesto di colonialismo, poiché in esso vi è già una sopraffazione delle popolazioni autoctone, alle quali non è riconosciuta la possibilità di avere nomi, religioni, culture, terre. Gli stessi indigeni, dunque, possono essere addomesticati e la conquista avverrà “con la croce e con la spada”.

Nel momento in cui esploriamo l’ignoto e lo conosciamo riconducendolo alla nostra realtà, il livello linguistico e la scrittura hanno un ruolo fondamentale. I filtri culturali attraverso cui vediamo il mondo sono un enorme vantaggio perché ci permettono di raccontare e conoscere, ma costituiscono un profondo limite, quello dell’etnocentrismo. Nelle Città invisibili di Calvino, il Gran Khan interroga Marco Polo, ambasciatore e mediatore tra le varie città dell’immenso impero, ed un giorno gli chiede perché non citi mai Venezia. La risposta è semplice: egli non ha mai parlato di alcun altra città. Venezia non è nominata esplicitamente, ma è l’origine che ha formato il viaggiatore e il suo modo di viaggiare ed ora è la lente deformante che permette a Marco Polo di addomesticare il mondo estraneo.

In conclusione, come ultimo esempio del legame strettissimo che intercorre tra scrittura e viaggio, vorrei citare la Commedia. Non è un caso che Dante inizi la propria opera con “Nel mezzo del cammin di nostra vita”: una metafora per cui la vita è un cammino, un viaggio; la scrittura stessa del poeta verrà più volte paragonata alla navigazione. Quando finalmente vedrà Dio, non riuscirà a descriverlo e costruirà una poesia sull’impossibilità di raccontare, sulla negazione dell’effabile, addomesticando così lo spaesamento. Non bisogna infine dimenticare lo stretto legame tra il “folle volo” di Ulisse e il “fatale andare” di Dante: il primo compie un’avventura con il solo ingegno umano, che, però diviene un errare perché non guidato da Dio, mentre il viaggio del secondo è provvidenziale, voluto dal Cielo stesso. Le due avventure si oppongono e corrispondono e nell’una c’è la spia minacciosa dell’altra. Tuttavia, Dante, dopo la conoscenza dell’ignoto, torna a casa ed è vero che Dio è la meta ultima della sua ascesa, ma non è lì che egli rimane, poiché è ancora vivente, non è quello il luogo che gli appartiene.

Credo che la scrittura abbia un proprio ruolo nel parlare di viaggi: scoprire la natura umana e le sue contraddizioni, mostrare il nostro intimo bisogno di trovare un equilibrio tra la smania di correre con una valigia in mano e l’allettante tepore di una coperta su un divano e una mano stretta fra le nostre.

Federica Avagnano