Ultras a chi?

Una cosa dovrebbe essere chiara ancor prima di cominciare: le curve, intese come gli spazi degli stadi di calcio adibiti al tifo più passionale, non sono composte solo ed esclusivamente da ultras. L’equazione ultras=curva non è vera.
Chiarito questo concetto molto spesso equivoco, possiamo iniziare a parlare di quelle che la stampa generalista ha da sempre definito “infiltrazioni mafiose negli stadi”.

Il calcio è lo sport più popolare al mondo, su questo dovremmo essere tutti d’accordo. Uno dei motivi, se escludiamo le preferenze personali, può essere riscontrato nel substrato sociale di provenienza. Giocare a pallone è economico, democratico e alla portata più o meno di tutti. Non è sorprendente allora di come la passione per il calcio si sia nel tempo andata radicalizzandosi (anche) in quei settori della società civile meno ricchi. L’enorme diffusione del gioco, la rilevanza geo-politica che spesso ha assunto (basti pensare ai Mondiali giocati in Argentina durante la dittatura dei colonnelli) hanno creato un rapporto viscerale tra tifosi di una squadra e la stessa. È una cosa che trascende i risultati sportivi, uno spirito campanilista (non per forza associato alla propria città , ma quasi) che provoca a chi lo pratica l’adrenalina del difensore di un ideale. Una cosa fortissima.

È questo l’archetipo dell’ultras, che può declinarsi in diverse sfaccettature che, ai fini del nostro discorso, non sono poi così rilevanti. Gli ultras vanno tutte le domeniche allo stadio, in casa e in trasferta (questo prima del capitolo tessera del tifoso) cantano per tutti i 90 minuti, difficilmente contestano la squadra e completano il loro sentimento con un qualcosa di molto vicino al cameratismo – che non è per forza una brutta parola, s’intende. Gli ultras poi hanno anche atteggiamenti da fuorilegge (una parola che suona molto meglio se letta nella sua versione anglofona “outlaw”). Inutile negarlo, nella cultura ultras (che significa “andare oltre” appunto) ci sono ben radicati i concetti di scontro, rissa fumogeni. Tutte cose che operano al confine, spesso al di l di quello che il codice civile permette. E questo è un fatto.

Far parte di una organizzazione mafiosa (il termine, per mancanza di spazio verrà utilizzato da adesso in poi per intendere qualsiasi tipo di organizzazione criminale), però, sembra essere un’altra cosa. Nonostante i punti i punti cardine delle due “culture” siano simili – cameratismo, protezione l’un l’altro, senso di famiglia, etc – c’è una sostanziale differenza: l’ultras nasce, cresce e muore all’interno di uno stadio di calcio (o nelle immediate vicinanze), tutti i suoi atti che abbiamo definito fuorilegge sono compiuti in relazione al calcio e, soprattutto, non coinvolgono nessun altro che non sia un ultras. Esempio: è possibile che un ultras in trasferta incontri un ultras rivale, e che facciano a cazzotti (nell’ideale ultras non sarebbero ammesse armi). Non è possibile che un ultras prenda un “normale tifoso” di un’altra squadra e lo riempia di botte. Quello lo fa un mafioso.
Nessuno è però così ingenuo da credere che non esistano delle eccezioni e delle degenerazioni a questa regola. Come nelle religione (esempio casuale fino ad un certo punto) c’è chi interpreta male i dogmi. È un problema, ma difficilmente risolvibile.
Ritornando a quanto stavamo dicendo: un mafioso invece… beh, sappiamo come opera un mafioso. Ma questi mafiosi possono essere degli ultras? Sì, verrebbe da dire quasi certo. Il caso mediatico degli ultimi tempi è stato quello di Genny A’Carogn’, a capo di uno dei gruppi storici della curva napoletana e, malauguratamente per lui, in rapporti con il crimine organizzato. Questo rende la curva napoletana vittima di infiltrazioni mafiose? Non per forza e, nel caso citato, no. Se un mafioso entra in un gruppo ultras accetta di rispettare delle regole, che, in termini spicci, gli impediscono di esercitare il suo “potere mafioso” nelle faccende da stadio. Non è l’infiltrazione mafiosa che ha fermato quella maldetta partita, non sono i mafiosi in curva a decidere i comportamenti della frangia ultras. Si tratta di convivenza e di sopravvivenza, è diverso.
Qui ci ritorna utile la nostra premessa per capire come le famigerate infiltrazioni esistano. Possiamo definire, senza timore di risultare classisti, la curva un settore popolare. I prezzi dei biglietti sono più bassi, e permettono a tutti di assistere alla partita. La conoscete la storiella del figlio dell’avvocato e dell’operaio, no? Ecco, vale anche e soprattutto per la curva. Ma con il figlio dell’operaio e del disoccupato c’è anche il figlio del mafioso che, pur potendosi permettere altri tipi di ticket, sceglie la curva per una sorta di desiderio di legittimazione. Ma il figlio del mafioso che viene “accolto” in curva non è un ultras. Capito questo, abbiamo capito tutto. E possiamo lasciare le autorità competenti svolgere il loro mestiere. Ci sono i mafiosi che vanno in curva, in curva ci sono anche gli ultras, che non sono normali tifosi. Qualche ultras può far parte di associazioni mafiose, ma quando supera quei tornelli mi mette il mantello dell’ultras. Quando i mafiosi non in curva non decidono le sorti di una squadra o di una tifoseria. Quando lo fanno il sistema ultras va in crisi, e si scioglie, come successo qualche anno fa alla Fossa Dei Leoni, gambizzata da esponenti del crimine organizzato. Potrebbe essere riassunto tutto qui.

Non fa bene l’accanimento mediatico, mai. A volte è semplice, quasi necessario. Come nei casi di strozzinaggio di alcuni gruppi del tifo laziale nei confronti della società, o quando nella curva del Palermo spuntò uno striscione dedicato ad un boss mafioso appena uscito di prigione. In questi casi la cultura ultras perde, e credo ammetta la sconfitta. Ma le eccezioni non sono regole, per definizione. Potremmo obiettare con: perché gli ultras non difendono il loro territorio, la loro casa, dagli “attacchi” della mafia? Marzullianamente potremmo risponderci: perché Falcone e Borsellino non hanno visto nascere i loro nipoti.
È un po’ il gioco del cane che si rincorre la coda. Gli ultras non sono nient’altro che un’altra delle categorie che compone la nostra società e dobbiamo tutti riconoscere con fermezza che non si può chiedere ad una sola categoria di combattere i demoni di tutti. Non si chiede ai commercianti di combattere da soli il racket. Non si chiede agli imprenditori di combattere da soli gli appalti truccati. Non si fa perché è sbagliato, suicida, e perché non è il fondamento di una democrazia.

Non chiediamo agli di farsi giustizia da soli, e non lo confondiamo con dei criminali. Un fuorilegge non deve essere per forza un criminale. Magari non è giusto essere l’uno quanto non è giusto l’essere l’altro. In questo modo si penalizza chi, pur non riconoscendosi in una cultura ultras, si reca allo stadio in curva perché crede sia il modo più giusto di supportare i suoi colori. Non deve essere neanche colpa loro.

È colpa nostra, come sempre quando qualcosa non va come deve andare. Il calcio è una parte importante della nostra società, e la soluzione è integrarlo, non isolarlo. È colpa nostra e dovremmo fare qualcosa a riguardo senz’altro. Purtroppo, parafrasando in un certo senso Pasolini, ancora non so cosa.

FRANCESCO ABAZIA

ORLANDO PISCOPO