LA FINE DEI CAVALIERI? – RIFLESSIONE SU DON CHISCIOTTE, EROE COMICO E TRAGICO

Articolo originariamente presente su uniersitarianweb.com

C’è un periodo nella vita della maggioranza di noi in cui desideriamo diventare dei cavalieri: vivere avventure, esser portatori di grandi ideali e valori, come la libertà, l’uguaglianza, la cortesia, superare mille prove, esser ricompensati da una fama che ci sopravvivrà. Ma nel mondo di adesso è davvero possibile vivere grandi avventure? Già Cervantes negava questa opportunità, descrivendo con estremo realismo il mondo prosaico della Spagna seicentesca, una realtà che non riconosceva più alcun posto e funzione ai cavalieri. La follia di Don Chisciotte è proprio questa: credere di poter riportare gli ideali cortesi, sublimare la realtà: non è in grado di distinguere ciò che è finzione da ciò che non lo è. E’ chiaro che il motivo della sua pazzia risiede nella lettura dei romanzi cavallereschi, in quello che Cervantes definisce, con radicale ironia, solo del “ciarpame”; il rogo dei libri, svolto per guarire Don Chisciotte, avviene dopo una cernita in cui è salvato, tra gli altri, l’Orlando furioso dell’Ariosto (segno, questo, dell’ammirazione e del debito di Cervantes verso l’autore italiano). Ma che tipo di lettore è il nostro protagonista?

Nel Polso del tempo, Weinrich ha proposto alcune categorie: escludendo il non-lettore, che si orienta solo in base a sapere e informazioni orali, vi è il lettore intensivo, che legge pochi libri e da cima a fondo, di solito la Bibbia e i testi sacri. Questo tipo di lettore era presente specialmente nel Medioevo, in cui la disponibilità di testi era ridotta e appannaggio di una classe ristretta di persone. Il lettore estensivo, invece, nasce con la stampa: è onnivoro, si nutre di saggi, romanzi, giornali. Adesso si è affermato il lettore sulla difensiva. Tristemente, sono divenuta uno di quest’ultimo genere: compro tantissimi libri, offerti da un mercato e da un’industria editoriale che sforna incessantemente nuovi titoli, li metto su uno scaffale e li accumulo, senza avere tempo di leggerli. Il lettore contemporaneo deve operare una scelta, decidere quali volumi consumare e quali no, tentando di non lasciarsi sopraffare.

Torniamo, dunque, a Don Chisciotte. Il cavaliere è a metà tra il lettore intensivo e quello estensivo: legge tantissimi libri ma intensivamente; ed è proprio questo a determinare la sua follia. Un altro esempio è fin troppo semplice: Madame Bovary, che si nutre dello stesso ciarpame di Don Chisciotte e dai sogni di evasione e di adulterio è condotta alla rovina. Flaubert narra vite monotone e grigie, uomini e donne di provincia, sostiene addirittura di voler scrivere un libro sul niente. Le grandi avventure sono al di fuori della letteratura alta, che ormai ha problematizzato questo concetto e non intende più parlarne; esse si rifugiano nella produzione popolare, di appendice. Non occorre ricordare che Dumas, contemporaneo di Flaubert, aveva negli stessi anni un enorme successo con i Tre moschettieri, zeppo di grandiose e mirabolanti avventure. Nella letteratura moderna non vi è più l’eroe, il cavaliere impavido che sceglie il proprio destino, che affronta l’avventura, che dà un senso al mondo: quelli che popolano i romanzi a partire dalla fine dell’Ottocento sono uomini e donne inetti, ammalati, inermi e inerti, passivi, in balia degli eventi della vita. I nomi si moltiplicano e sono noti: Svevo, Moravia (La noia), Musil (L’uomo senza qualità), Sartre. Proprio su quest’ultimo voglio soffermarmi: nella Nausea vi è un interessante dialogo tra il protagonista e un suo amico, in cui Antoine lamenta di non riuscire a scrivere perché non ha mai vissuto avventure, gli sono capitati solo fatti, eventi, accidenti. Il critico tedesco Simmel ha brillantemente sostenuto che l’avventura esiste retrospettivamente: siamo noi, una volta che l’evento si è concluso, ad isolarlo dal flusso continuo della nostra vita, circoscrivere l’avvenimento rispetto al tempo lineare che determina la nostra esistenza e investirlo di un senso. E’ il principio delle autobiografie, le quali, redatte alla fine di una vita, sono un tentativo di dare un ordine agli eventi, creare una logica, stabilire una struttura e un senso. Un’operazione paradossale e illusoria, dato che tale significato viene attribuito solo retrospettivamente. Ciò che Antoine non riesce più a fare è privilegiare un segmento della propria vita e investirlo di un senso: l’esistenza è così del tutto insensata, determinata senza scampo dal flusso lineare del tempo, che ci condurrà inevitabilmente alla morte.

Qual è il presupposto perché un accidente divenga avventura? Deve essere raccontato. I cavalieri della Tavola Rotonda spedivano alla corte i testimoni delle loro prodezze e loro stessi raccontavano le meravigliose avventure di cui erano stati protagonisti. (Si pensi all’inizio dell’Yvain di Chrétien de Troyes, in cui Calogrenant narra la propria peripezia, che spinge Ivano a partire immediatamente all’avventura, innescando l’intero racconto). Un altro esempio è offerto dallo stesso Don Chisciotte che vorrebbe combattere contro un leone, ma l’animale è troppo pigro e svogliato e così il cavaliere è costretto a chiedere alla guardia di essergli testimone che l’avventura non è potuta avvenire per colpa esclusivamente della bestia. Ariosto esprime chiaramente il bisogno che l’avventura venga narrata, quando Rinaldo chiede informazioni ad alcuni monaci ed essi rispondono di prestare attenzione affinché l’impresa del cavaliere non rimanga sconosciuta (“Risposongli ch’errando in quelli boschi, / Trovar potria strane aventure e molte: / Ma come i luoghi, i fatti ancor son foschi; / Che non se n’ha notizia le più volte. / – Cerca (diceano) andar dove conoschi / Che l’opre tue non restino sepolte, / Acciò dietro al periglio e alla fatica / Segua la fama, e il debito ne dica”).

Tuttavia, se è il racconto a determinare l’avventura, essa può non essere solo inerente fatti eccezionali, fuori dall’ordinario, ma anche cose banali e quotidiane. Il problema di fondo, però, rimane: se l’uomo moderno e contemporaneo non riesce più ad isolare una parte della propria vita per dotarla di significato, la letteratura stessa non può riuscire a compiere tale operazione. Sarà la descrizione dell’insensatezza dell’esistenza, della banalità e della mediocrità del mondo.

Vorrei concludere con un’ultima considerazione su Don Chisciotte. Si tratta di un personaggio comico o tragico? Noi ridiamo di lui, che si copre di ridicolo ed è continuamente sconfitto, ma ciò che colpisce della sua figura è la sua enorme forza trainante. I lettori vedono il mondo attraverso i suoi occhi, partecipano alle sue “avventure”, si schierano dalla sua parte. Ridono, è vero, ma sono d’accordo con lui: che ne sarebbe del mondo senza sogni, ideali, valori? Che cosa rimarrebbe della realtà senza la possibilità di sublimarla, di renderla migliore? A mio parere, ogni testo ben scritto compie queste operazioni, sia esso un romanzo cavalleresco o un libro sulla mediocrità umana. Joseph Conrad scrive: “Ero a un pelo dall’ultima opportunità di pronunciarmi, e ho scoperto con umiliazione che probabilmente non avrei avuto nulla da dire”. Come ho scritto ad un amico qualche tempo fa: anche parlando del niente e della più totale inettitudine, si può creare bellezza e, secondo me, dire in modo sublime che la vita è insensata è uno dei modi per farle acquisire un senso. O forse ci porta a pensare che un significato esista e ci riscatta (momentaneamente) dal fatto che non riusciamo a coglierlo.

 

Federica Avagnano