#Lifestyle – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Sun, 18 Feb 2018 20:38:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png #Lifestyle – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 Donne bianche e capelli neri http://www.360giornaleluiss.it/donne-bianche-e-capelli-neri/ Wed, 16 Nov 2016 09:38:26 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7568 Tutte le donne, più di una volta nella loro vita, si sono ritrovate davanti allo specchio nel tentativo di sembrare professionali, prima di presentarsi ad un colloquio o ad un incontro di lavoro. La sensazione di voler essere diverse, di voler cambiare il proprio corpo per rientrare nei canoni della bellezza sociale è una problematica

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Tutte le donne, più di una volta nella loro vita, si sono ritrovate davanti allo specchio nel tentativo di sembrare professionali, prima di presentarsi ad un colloquio o ad un incontro di lavoro. La sensazione di voler essere diverse, di voler cambiare il proprio corpo per rientrare nei canoni della bellezza sociale è una problematica molto comune al sesso femminile. Il desiderio di cambiamento diventa poi ancora più impellente se si è una donna di colore, o comunque non bianca, che vive in una società dove il modello di riferimento è quello dell’“uomo bianco”.

L'artista afroamericana Endia Beal

L’artista afroamericana Endia Beal

Le battaglie per l’inserimento dell’uguaglianza di gender e di “razza” possono essere combattute in tanti modi, dalle manifestazioni alla scrittura, dalla televisione alla fotografia. Ed è infatti proprio quest’ultimo strumento che ha permesso a Endia Beal, artista afroamaricana, di immortalare la frustrazione che il corpo di una donna di colore può provare quando ha la sensazione di essere fuori luogo nel proprio ambiente lavorativo. Questa battaglia è iniziata già tre anni fa, quando Beal ha iniziato a raccogliere gli scatti per quella che sarebbe divenuta poi una mostra fotografica dal titolo “Can I touch it?”, in riferimento alla domanda che gli uomini bianchi del suo ufficio si facevano circa i suoi capelli, con il desiderio inespresso di sapere come sarebbe stato toccarli. La sensazione di essere una creatura esotica, dunque, non l’ha portata ad isolarsi, bensì a vincere l’imbarazzo e a cercare di condividere la propria diversità come parte della normalità. Il primo passo in questa direzione è stato quello di chiedere agli uomini del suo ufficio di toccare i suoi capelli: per molti di loro era la prima volta e la sensazione più comune, confessata dopo averlo fatto, era quella di stranezza.

Tuttavia, la paura del diverso ha riguardato anche le sue colleghe bianche: cosa avrebbero provato immedesimandosi il più possibile in una donna di colore? Per questo, Beal ha chiesto ad una quarantina di donne, alcune colleghe, altre sconosciute, di essere fotografate, dopo aver fatto loro un’acconciatura che le facesse assomigliare a delle donne nere. L’obiettivo era quello di dare uno spazio corporale a queste sensazioni: esplorare il corpo femminile per capire e far capire come una donna possa sentirsi al suo interno. L’immagine che ne è venuta fuori è una sovrapposizione di lineamenti diversi, un incontro di culture. Inoltre, l’aspetto più importante non è necessariamente la discrepanza fisica che si nota nel volto tra la donna bianca fotografata e i suoi capelli, ma il richiamo a tutte le storie complicate, le assunzioni, i silenzi, le lotte, presenti su quel volto. Questa idea ha incluso i confini razziali, di gender e generazionali: infatti, le persone spesso cercano di cambiare se stesse per calzare alla perfezione in certi ambienti.

Un progetto lungimirante, che ha reso ancora oggi questa donna un simbolo nella società statunitense per una lotta contro i pregiudizi. Pregiudizi per il colore della pelle o per il sesso, che devono essere abbattuti affinché nessuna donna si senta più chiedere di cambiare nome perché inappropriato o acconciatura perché poco conforme agli standard della società in cui vive. Le donne non sono oggetti, ma coscienze con la propria storia, al di là del sessismo e della discriminazione razziale.

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Sonia Rykiel, la «Reine du tricot» http://www.360giornaleluiss.it/sonia-rykiel-la-reine-du-tricot/ Tue, 06 Sep 2016 08:00:14 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6913 Che cos’è che distingue un grande stilista, un’icona intramontabile della moda da tutti gli altri? È il riuscire a creare ed incarnare uno stile di vita, un modo di essere, un’identità inconfondibile. Non tutti gli stilisti ci riescono ma si può affermare che tra i pochi nomi di coloro che ce l’hanno fatta c’è senza

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Che cos’è che distingue un grande stilista, un’icona intramontabile della moda da tutti gli altri? È il riuscire a creare ed incarnare uno stile di vita, un modo di essere, un’identità inconfondibile. Non tutti gli stilisti ci riescono ma si può affermare che tra i pochi nomi di coloro che ce l’hanno fatta c’è senza ombra di dubbio Sonia Rykiel.

Nata a Parigi nel 1930, maggiore di cinque sorelle, a 17 anni comincia a lavorare come vetrinista. Sarà però il matrimonio con Sam Rykiel, proprietario di un’elegante boutique, che la porterà a muovere i primi passi da stilista; comincia infatti a realizzare i primi maglioncini, che diventeranno i suoi capi più riconoscibili e famosi, nel 1962 quando, incinta, si accorge di non riuscire a trovare abiti da indossare. Alle clienti della boutique piaceranno moltissimo e Sonia (come ama essere chiamata da tutti) e il marito, accorgendosi del potenziale, decidono di fondare una società. Nel 1968 apre la prima boutique in Rue de Grenelle, sulla Rive Gauche e in pochissimo tempo diventa la stilista del momento. Il suo tessuto preferito è, e sarà sempre, la lana che comincia a trattare come i tessuti più nobili e preziosi, utilizzandola anche per i vestiti da sera; per questo viene soprannominata “la regina del tricot. Inizialmente le sue collezioni sono caratterizzate dal colore nero, che lei stessa indosserà per tutta la vita ma che nelle sue creazioni abbandonerà presto in favore del suo eterno marchio di fabbrica: le righe orizzontali colorate.

È durante gli anni settanta che però la sua filosofia di vita esplode. Grazie alla sempre più crescente consapevolezza e all’affermarsi del femminismo, le donne sposano appieno lo stile di Rykiel che diventa simbolo della Parigi bohémienne: indipendente ma sensuale, chic e comodo, femminile e coraggioso; pantaloni di taglio maschile si abbinano a maglie solcate da ruches o piene di strass. Sonia è convinta che le donne non debbano farsi dire dagli stilisti cosa indossare e sarà proprio lei, nel 1976, a coniare il termine demodé per definire la moda stessa, secondo lei troppo lontana, dalla quotidianità e dalle sue necessità. L’idea che matura in questo periodo caratterizzerà il suo lavoro sempre: la moda come portatrice di gioia e calore. Perfino in passerella le sue modelle sono diverse, Rykiel richiede sempre espressamente che sorridano, siano disinvolte, si girino a guardare il pubblico ai lati, in contrapposizione ovviamente con le rigide e serie modelle che sfilano sulle altre passerelle.

Perfino il suo look diventerà icona; non abbandonerà mai il caschetto con frangetta gonfio in basso (a creare un effetto piramide)rosso fuoco, i suoi abiti neri e i tacchi.

Nel 1995 lascia la guida creativa della casa di moda alla amatissima figlia Nathalie pur rimanendo coinvolta nelle decisioni più importanti. Nel 2012 svela che questa sua decisione era stata causata dalla scoperta di essere malata di Parkinson, causa della sua morte il 25 agosto scorso.

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FLORENCE WELCH E LA MAGIA DI ALESSANDRO MICHELE PER GUCCI http://www.360giornaleluiss.it/florence-welch-e-la-magia-di-alessandro-michele-per-gucci/ Fri, 06 May 2016 10:17:56 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6541 Alessandro Michele, l’eccentrico direttore creativo di Gucci ha scelto Florence Welch, leader di the Florence + the Machine come brand ambassador per Gucci Timepieces & Jewelry, la collezione di gioielli in oro 18 carati del brand fiorentino. La collaborazione tra il direttore creativo e la cantante non ha stupito il fashion system: il loro senso

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Alessandro Michele, l’eccentrico direttore creativo di Gucci ha scelto Florence Welch, leader di the Florence + the Machine come brand ambassador per Gucci Timepieces & Jewelry, la collezione di gioielli in oro 18 carati del brand fiorentino. La collaborazione tra il direttore creativo e la cantante non ha stupito il fashion system: il loro senso estetico è davvero molto simile, come racconta Michele: “Florence ed io siamo diventati buoni amici, ma ho voluto collaborare con lei principalmente perché è un’artista entusiasmante. Le sue canzoni dark e romantiche sono pezzi senza tempo, carichi di passione e sentimento; sotto molti aspetti richiamano lo spirito di Gucci”. Non a caso il designer ha realizzato la sua collezione di debutto per Gucci mentre ascoltava “How big, how blue, how beautiful”, l’ultimo album della cantante britannica e inoltre ha disegnato i costumi per il suo tour mondiale.
Anche Florence Welch era entusiasta della collaborazione con Michele: “Sono una specie di gazza ladra e quando Alessandro ed io ci siamo conosciuti, ciò che ci ha subito accomunato, è stato il nostro amore per i gioielli. Credo fermamente che quello che sta creando con Gucci sia qualcosa di magico e sono entusiasta di farne parte. Non sono stata realmente un ambasciatore per qualcosa prima d’ora, e ad essere onesti non credo che sia qualcosa che avrei nemmeno preso in considerazione se non fosse stato per Alessandro”. Michele, che – con la sua barba shakespeariana – sembra essere uscito da un’altra epoca, fa dei gioielli il punto centrale del suo look e per la nuova collezione si è ispirato alla natura e agli animali, come conferma lui stesso: “Le api che penso siano davvero interessanti, venivano usate come messaggeri tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Poi ci sono i serpenti, che rappresentano, ovviamente la tentazione e fiori che chiaramente sono romantici ma con un’idea di decadenza”.

L’ascesa di Alessandro Michele è stata completamente rivoluzionaria. Quando, nel gennaio 2015, è diventato direttore creativo di Gucci, il suo nome non diceva niente neanche agli addetti ai lavori; invece Michele lavorava già per il marchio con la doppia GG da 13 anni, essendo entrato sotto la direzione creativa di Tom Ford e avendo lavorato al fianco di Frida Giannini fino alla sua uscita di scena nel dicembre 2014. Michele, una volta assunta la posizione di direttore del marchio con responsabilità di tutte le collezioni e dell’immagine del brand, ha modificando totalmente lo stesso, rendendolo irriconoscibile rispetto a quella che era l’immagine della donna e dell’uomo Gucci creata dai suoi predecessori. Con Frida Giannini e Tom Ford la donna Gucci era sensuale, forte, persino sfacciata: con Michele, invece, è stata trasformata in una nerd androgina, bohemienne-intellettuale un’artista, curiosa e sempre alla ricerca del dettaglio. Questa ricerca parte spesso dal vintage, dall’antico che sapientemente viene reinterpretato attraverso il filtro della modernità. Il designer, infatti, è un grande collezionista. Lui stesso si definisce “un accumulatore a cui piace collezionare piccole cose, appliqué, stoffe preziose che sembrano provenire da un altro tempo”. Un amante dell’arte e della bellezza imperfetta: “nella mia prospettiva l’errore aggiunge bellezza. È come il vintage che io uso come linguaggio per dare prospettiva al nuovo e al bello. Chi l’ha detto che per essere moderni bisogna cancellare tutto? Il fattore inquinante per me è fondamentale”.

In molti si sono chiesti come abbia fatto a rivoluzionare il brand, da dove abbia preso il coraggio di esporsi così tanto una volta nominato direttore creativo. Durante gli anni trascorsi lavorando accanto a Frida Giannini, la sua visione estetica non è mai fuoriuscita e poi improvvisamente un vortice di colori, stampe, fantasie vintage che sembrano uscite da un film di Wes Anderson e stranezze quali i mocassini tagliati sul retro con pelliccia, sono stati creati da Michele e apprezzati sia dalla critica che l’ha premiato come International Fashion Designer of the Year ai British fashion awards del 2015, sia dal pubblico, tanto che il fatturato dell’azienda è cresciuto con il suo arrivo. Spontaneamente, allora, ci si chiede com’è possibile che un estro creativo così eccentrico sia rimasto nascosto per ben 13 anni e ancora come è possibile che chi è stato così tanto tempo vicino a Frida Giannini abbia uno stile così diverso. Michele, in un’intervista rilasciata a D La Repubblica, ha riposto cosi: “Non ho mai ridotto la mia vita al mio lavoro. Prima lavoravo per qualcuno che aveva un’estetica diversa dalla mia. E lo facevo bene, duramente, fino in fondo. Ma il mio privato è sempre stato ricchissimo. Il mio privato è sempre stato frutto della mia immaginazione e non l’ho mai donato al mio lavoro semplicemente perché non mi veniva richiesto. La mia ossessione per il collezionismo. La passione per il cinema, la letteratura, Firenze, Parigi, i luoghi dimenticati. Posso fare un’intera nottata a perdermi in queste ossessioni. Ho sempre vissuto la mia vita come se dovesse succedere qualcosa di meraviglioso. Fare qualcosa per me nasconde sempre la scusa di fare qualcosa di bello. Quando dico al mio fidanzato “vado in farmacia”, lui subito risponde “per favore non tornare dopo cena”. Perché sa che per me andare in un posto significa fermarmi in tutti gli altri posti belli che incontro per strada. Sento una profonda urgenza per la bellezza e per le cose che sono impossibili. E penso che questo sia quello che le persone oggi cercano dalla moda. Un frullato di bellezza. Perché la moda è il modo più semplice che abbiamo di ricollegarci alla bellezza. È questo che succede quanto ti metti un bel vestito. Io l’ho imparato da mia madre. Lavorava nel cinema e mi ha insegnato a vivere con la necessità di raccontare la bellezza. E di tamponare le cose brutte. Ecco, ho preso tutto questo e l’ho messo nella mia moda”.

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#laRinascentePeople http://www.360giornaleluiss.it/larinascentepeople/ Fri, 08 Apr 2016 10:17:59 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6281 Ogni luogo è fatto soprattutto dalle persone che lo animano.  E’ questo lo spirito centrale della campagna Spring/Summer 2016 de La Rinascente firmata da Scott Schumann e Jungwoo Kasiq, e l’accoppiata è da sé interessante. Scott Schumann è un fashion blogger americano (The Sartorialist) e fotografo, Jungwoo Kaisq è un pittore, acquerellista; due opposti complementari,

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Ogni luogo è fatto soprattutto dalle persone che lo animano. 

E’ questo lo spirito centrale della campagna Spring/Summer 2016 de La Rinascente firmata da Scott Schumann e Jungwoo Kasiq, e l’accoppiata è da sé interessante.

Scott Schumann è un fashion blogger americano (The Sartorialist) e fotografo, Jungwoo Kaisq è un pittore, acquerellista; due opposti complementari, uno che incarna lo spirito moderno e tecnologico, l’altro che ripete la più antica delle arti figurative. Ma hanno un punto centrale in comune: la riproduzione dell’attimo, nella sua complessità e velocità, nella sua particolarità ed unicità.

#laRinascentePeople ha voluto catturare tutto questo attraverso due arti uniche rendendo protagonista un luogo, La Rinascente, che ogni giorno prende vita grazie alle anime che la frequentano, e lo fa attraverso i loro volti, selezionati in un “Street Casting Fashion Week”.

Il risultato è una campagna che presenta uno sguardo sulla città, le persone che la vivono, i caratteri che animano La Rinascente.

Perché La Rinascente ha una storia che è un pò quella di tutti.

Nati dall’idea dei fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi nel 1865, i grandi magazzini ebbero immediato successo, tanto che già nel 1877 l’attività fu ingrandita e trasferita nella storica sede di Piazza Duomo. E’ il primo esempio di grandi magazzini all’italiana che nel corso degli anni si trasformano e mutano, al passo con il cambiamento dei tempi, delle abitudini, delle persone puntando sull’eleganza dei magazzini, la qualità della merce e la “democraticità” del mercato essendo accessibili non solo alle classi alte ma anche a quelle medio-basse.

Il nome d’autore è opera dell’estro di Gabriele D’Annunzio che la rinomina “la Rinascente” nel 1917, quando fu ricostruita in seguito ad un incendio che la distrusse completamente. Da quell’angolo di Piazza Duomo, e man mano nelle principali città italiane, La Rinascente ha assistito al miracolo italiano diventando il luogo in cui si materializzavano i sogni (e i nuovi bi-sogni) degli italiani, dal frigo agli elettrodomestici, dall’abbigliamento alla cancelleria.

E’ sempre stato un grande ritrovo per gli artisti, ecco perché la campagna Spring/Summer 2016 è perfettamente in linea con lo spirito della compagnia. Traspare un’idea di moda fatta di vita, come un paio di scarpe di cuoio consunte, e ricercata non per il lusso e l’eleganza ma per sé stessi. Le foto di Scott Schumann riprendono le persone in modo naturale e reale, nella loro unica diversità, e poi diventano degli acquerelli grazie alla mano di Jungwoo Kasiq che li plasma assecondando e gestendo  l’imprevedibilità dell’acqua di spargersi e formare macchie.

Il risultato è un lavoro d’arte, di moda, di vita.

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Cosa c’è dietro Instagram: la verità dietro gli scatti più belli http://www.360giornaleluiss.it/cosa-ce-dietro-instagram-la-verita-dietro-gli-scatti-piu-belli/ Fri, 25 Mar 2016 06:26:40 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6131 La naturalezza va costruita Qualche tempo fa la blogger Marianna Hewitt ha rivelato in un video di YouTube tutto quello che fa prima di postare un selfie. Innanzitutto se ne scatta moltissimi, dopodiché li seleziona e poi usa l’app Facetune per eliminare capelli svolazzanti, dare luce al suo viso e cancellare le occhiaie. Con VSCO

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  • La naturalezza va costruita
  • Qualche tempo fa la blogger Marianna Hewitt ha rivelato in un video di YouTube tutto quello che fa prima di postare un selfie. Innanzitutto se ne scatta moltissimi, dopodiché li seleziona e poi usa l’app Facetune per eliminare capelli svolazzanti, dare luce al suo viso e cancellare le occhiaie. Con VSCO Cam migliora la qualità della foto e sceglie il filtro da aggiungere, confrontando l’immagine a quelle già postate, in modo da avere una coerenza perfetta su suo profilo. Se Marianna è una blogger professionista e soltanto il video dimostrativo dura dieci minuti, figuriamoci quanto ci metterebbe un instagrammer inesperto a provare tutta la trafila.

     

    • Annoiarsi non è ammissibile

    Nel regno dell’immediatezza la monotonia è un vero scandalo. Un bravo instagrammer sa che per aumentare il numero di follower bisogna postare almeno due volte al giorno. Quando però si trascorrono le giornate in ufficio davanti al computer si ha a che fare solo con scartoffie poco fotogeniche o riunioni soporifere dove farsi un selfie garantirebbe solo il licenziamento. Meglio allora rifugiarsi nella malinco-chic e saccheggiare sul web immagini di Brigitte Bardot – che funziona quasi quanto “La vita è bella” a Natale – o recuperare vecchie foto in grado di dimostrare la nostra coolness anche a nove anni. Il tutto rigorosamente da sigillare con un #tbt venato di nostalgia, quanto basta per essere affascinanti.

     

    • L’apparenza conta moltissimo

    L’hashtag #OOTD non indica un disordine cognitivo ma “l’outfit del giorno” che molto spesso è presentato con uno scatto dall’alto di abiti e accessori. Questo ready-made implica uno sbattimento bestiale per i non addetti ai lavori. Intanto lo sfondo deve essere studiatissimo; può essere un copriletto, un tappeto, un pavimento particolare; fondamentale è che sia coordinato con i colori dei vestiti e che non soffochi lo scatto. Al centro ci deve essere l’oggetto su cui ci si vuole concentrare e il resto deve essere presentato in un perfetto equilibrio dei pieni e dei vuoti. I vestiti non devono essere sgualciti ma ben piegati e, al tempo stesso, buttati lì come se fossero stati appena tirati fuori dall’armadio. Poi bisogna mettere il cellulare su un cavalletto e, finalmente, scattare.

     

    • Bisogna sempre avere qualcosa da dire

    Ci sono due scuole di pensiero nell’utilizzo delle didascalie su Instagram.  La prima accorcia le distanze con i follower, usando un tono amichevole, tanti cuoricini e lo stupore di chi non si abitua al privilegio. Un po’ come dire: “Ehi non è pazzesco essere ai Caraibi a Novembre?”; in questo modo gli sfigati bloccati in tangenziale si sentono fortunati ad avere amici tanto speciali. La seconda è un vero colpo da maestro e implica una certa abitudine alla bella vita, un understatement quasi sprezzante che tanto sarebbe piaciuto a Oscar Wilde. Un sospiro annoiato del tipo: “Sì io sono qui, ma non te lo consiglio: è una palla”.  In entrambi i casi l’abilità sta nel vedersi da fuori e capire cosa funziona meglio. Ogni influencer è un brand con la sua immagine e il suo tono di voce che deve sorprendere senza deludere le aspettative.

     

    • Prima si mangia con gli occhi, poi si vedrà

    Quando hai visto il cameriere attraversare la sala per arrivare verso il tuo tavolo ti sei finalmente tranquillizzata: il tuo appetito sta per essere placato. La delusione è cocente quando ti accorgi che la tua pasta allo scoglio è appena stata disposta al centro tavolo, tra la tartare e la centrifuga della tua amica che, noncurante degli sguardi sconcertati degli altri clienti, si è messa in piedi sulla sedia per riprendere il suo #foodporn d’autore. Il set è risistemato più volte con la cura di Luchino Visconti. La foto riceverà un centinaio di like, ma i tuoi spaghetti sono diventati freddi.

     

    • Fai sport, ma non muoverti

    I runners sono una tribù particolarmente socievole: su Facebook e Twitter ci tengono aggiornati su dove vanno e quanto corrono. Probabilmente perché sperano che il loro esempio ci sproni ad abbandonare il divano e a raggiungerli di corsa verso il benessere. Su Instagram invece, dove i risultati sono chiaramente visibili, l’ammirazione per gli sportivi si tinge di invidia. Le foto di addominali in bella vista sono un vero schiaffo morale. Ma anche lì, a osservare bene, ci accorgiamo che la naturalezza è un artificio: niente capelli legati alla meglio e umidicci di sudore, niente visi arrossati, magliette chiazzate o espressioni che dicano “Ma chi me l’ha fatto fare?”.  Le vere instagrammer esibiscono completini coordinati, capelli sciolti e un trucco che non cola. Sicuramente barano per lo scatto, ma non per il fisico.

     

    • Trovati il fidanzato giusto

    Lo scatto rubato ormai è un classico, un po’ perché lo street stile ha moltiplicato i fotografi, un po’ perché ci sono moltissimi fidanzati obbligati a trasformarsi in paparazzi, irretiti dal miraggio del successo della coppia Riccardo Pozzoli – Chiara Ferragni. Ed ecco che il social network pullula di foto in cui giovani dagli abbinamenti azzardati esibiscono una falcata da generale fra le rotaie del tram in una Milano insolitamente deserta. La noncuranza è in realtà un’architettura studiatissima, in cui ogni ingrediente è pensato prima: abbigliamento, location, camminata e capelli scompigliati. Se il risultato non è soddisfacente bisogna rifare tutto da capo, aspettando il prossimo semaforo rosso.

     

    • La finzione è meglio della realtà

    Un altro grande must di instagram è il bacio furtivo, in cui innamorati da cartolina ostentano un trasporto mozzafiato quanto la scena di una commedia romantica. E proprio come in un film bisogna chiedersi chi sia il regista e chi il direttore della fotografia. Se la foto è ravvicinata dovete immaginare acrobazie pazzesche per riprendere visi ed effusioni senza rivelare che a scattare sia uno dei due fidanzatini, più attento all’inquadratura che al sentimento. Se invece lo scatto riprende la coppia in una cornice così perfetta da rasentare la noia allora sappi che, magari, non sono così presi l’uno dall’altra ma che certamente hanno un amico molto, molto paziente.

     

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    Danay Ferguson: la bambina a capo della no-profit per promuovere la lettura. http://www.360giornaleluiss.it/danay-ferguson-la-bambina-capo-della-no-profit-promuovere-la-lettura/ Fri, 11 Mar 2016 16:52:29 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6013 Cosa può aspettarsi un padre solitamente dalle richieste di una bambina di otto anni? Una gita allo zoo, una nuova bicicletta, una bambola o una passeggiata fino al parco-giochi più vicino; Dwayne Ferguson, un web programmer di Fresno in California ha dovuto affrontare una situazione decisamente insolita quando sua figlia Danay gli ha presentato invece

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    Cosa può aspettarsi un padre solitamente dalle richieste di una bambina di otto anni? Una gita allo zoo, una nuova bicicletta, una bambola o una passeggiata fino al parco-giochi più vicino; Dwayne Ferguson, un web programmer di Fresno in California ha dovuto affrontare una situazione decisamente insolita quando sua figlia Danay gli ha presentato invece un progetto per avviare un’organizzazione.

     

    Nasce così, nel 2014, la Reading Heart, fondazione no-profit con la quale la piccola Danay sta cercando di cambiare il mondo attraverso la lettura, l’organizzazione infatti si basa sullo scambio e sulla donazione di libri. Ciò che ha spinto Danay a considerare l’idea di dare vita a questo progetto è la voglia di condividere la passione per la lettura con tutti i bambini del proprio paese; la piccola imprenditrice divora infatti anche tre libri al giorno ma non sembra avere molta compagnia a Fresno, una delle cittadine con il più alto tasso di analfabetizzazione degli Stati Uniti.

     

    La sua missione è far sì che ogni bambino possa avere accesso ai libri gratuitamente e il meccanismo pensato da Danay Ferguson è semplice: innescare un circolo di donazioni, l’unica condizione posta dalla bambina infatti è che chiunque riceva in dono un libro dalla Reading Heart deve promettere di leggerlo e regalarlo a propria volta. L’attività benefica è rivolta al momento soprattutto ai coetanei che non possono permettersi un’istruzione adeguata e a quelli che si trovano negli ospedali.

     

    Nel primo anno di attività l’organizzazione, che conta già 40 volontari, per la maggior parte bambini, ha già raccolto più di novantamila libri, donandone trentamila e se c’è una cosa che proprio non sembra mancare a Danay Ferguson è l’ambizione, il suo progetto è di continuare a far crescere la fondazione per arrivare a livelli nazionali e in futuro addirittura internazionali. Il 18 marzo si svolgerà una 24 ore di donazioni per cercare di arrivare alla cifra di mezzo milione di libri in beneficenza, usati o nuovi, raccolti in un solo giorno per battere il precedente record fissato a 274.325 volumi ed entrare nel Guinness dei primati.

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    LA SOTTILE LINEA TRA APPROPRIAZIONE CULTURALE E APPREZZAMENTO CULTURALE http://www.360giornaleluiss.it/la-sottile-linea-tra-appropriazione-culturale-e-apprezzamento-culturale/ Fri, 19 Feb 2016 11:21:48 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5807 Negli ultimi mesi è in corso una polemica che coinvolge ogni forma d’arte, dalla moda alla musica: stiamo parlando della “cultural appropiation”. Non è facile dare una definizione del termine: la professoressa Susan Scafidi che insegna legge alla Fordham university di New York l’ha definita così: “Appropriarsi della proprietà intellettuale, delle conoscenze tradizionali, delle espressioni

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    Negli ultimi mesi è in corso una polemica che coinvolge ogni forma d’arte, dalla moda alla musica: stiamo parlando della “cultural appropiation”. Non è facile dare una definizione del termine: la professoressa Susan Scafidi che insegna legge alla Fordham university di New York l’ha definita così: “Appropriarsi della proprietà intellettuale, delle conoscenze tradizionali, delle espressioni culturali , o manufatti dalla cultura di qualcun altro senza permesso. Questo può includere l’uso non autorizzato di una danza di un’altra cultura, di un abito, della musica, della lingua, del folklore , della cucina , della medicina tradizionale ecc. E ‘ più dannoso quando la comunità di origine è un gruppo minoritario che è stato oppresso o sfruttato o quando l’oggetto di appropriazione è particolarmente sensibile, come ad esempio oggetti sacri”.

    Il tema dell’appropriazione culturale abbraccia ogni continente. Per quanto riguarda l’Africa, a creare la polemica, è stata la sfilata di Marc Jacobs SS 2015: i modelli e le modelle avevano una particolare acconciatura che ricreava i “bantu knots”, una pettinatura indossata per secoli dalla tribù Zulu in Sud Africa. Dopo la sfilata, è stato pubblicato un tutorial chiamato “How to: twisted mini buns inspired by Marc Jacobs’ show” in cui si spiegava come realizzare l’acconciatura definita però “mini buns” ossia piccolo chignon, senza dare credito alle sue vere origini. Il web si è indignato davanti a quest’appropriazione culturale, le ragazze afroamericane che sono solite utilizzare questa tipica acconciatura – parte della loro cultura da secoli – si sono fotografate, creando anche un apposito hashtag su Instagram #ITaughtMarcJacobs cercando di sensibilizzare lo stilista e l’intero mondo della moda su questo “furto culturale”.

    La stessa polemica ha colpito la collezione di Givenchy AW 2015: stavolta l’appropriazione culturale viene dal sud America e riguarda le “Chola”. Il significato del termine “Chola” ha avuto un’evoluzione rispetto al 1800 quando veniva usato per identificare coloro che hanno origini latino-americane e fu poi usato per riferirsi agli immigrati messicani fino a quando è stato adottato per definire le ragazze delle bande Latinos negli anni ’70. Le ragazze “Chola” hanno uno stile ben definito, capelli curati detti “baby girl” spesso con trecce e appunto riccioli da bambina sulla fronte, sopracciglia disegnate con la matita e labbra scure. Riccardo Tisci, direttore creativo della maison francese alla domanda: “Da dove viene l’ispirazione per questo look?” ha risposto cosi: “Le ragazze della mia collezione rappresentano una “Chola vittoriana”, lei è il capo della gang”.
    La collezione è stata ampiamente apprezzata e considerata come un omaggio da parte di Tisci alla sub-cultura giovanile. Ma la maggior parte della stampa ha ignorato il vero significato del termine “Chola” e quello che rappresenta: i sostenitori della “cultural appropiation” hanno definito la collezione un insulto alla cultura latino-americana, anche perché di tutte le modelle che hanno sfilato durante lo show, solo Joan Smalls era l’unica con origini latino-americane ed inoltre il termine “vittoriano” accostato alla parola “chola” è stato utilizzato – sempre secondo i sostenitori della polemica – per “sbiancare” il riferimento ad una cultura prevalentemente appartenete agli immigrati del sud America. Ma Tisci non è stato il solo a prendere ispirazione dal mondo delle “Chola”: numerose pop star – da Lana del Rey a Gwen Stefani, da Nicki Minaj a Fergie – hanno attinto dallo stile delle Chola girls. Gwen Stefani, in particolare, è una veterana dello stile ” chola glamour” come si può vedere nel suo video Luxurious del 2004.

    Più recentemente – e sempre dal mondo della musica – arriva l’ultima polemica legata alla “cultural appropiation”. Questa volta siamo in India e gli autori sono Beyoncè e Chris Martin, leader della band inglese Coldplay. Il video del loro ultimo singolo, “Hymn for the weekend”, è stato girato a Mumbai ed è un tripudio di colori e cultura indiana. Beyoncè canta con il tipico look indiano, con bindi e gioielli sul viso e mehndi (tatuaggi all’henné naturale rosso usati in Oriente come rito benaugurante) sulle mani, mentre Martin percorre le strade della città circondato da bambini che lo rincorrono. Il video è stato accusato di “cultural appropiation” per l’eccesivo utilizzo dei simboli della cultura indiana stereotipati.

    Ma c’è una linea davvero sottilissima tra l’appropriazione culturale e l’apprezzamento culturale. Il mondo della moda da sempre rende omaggio alle sottoculture: basti pensare a Vivienne Westwood che nell’Inghilterra degli anni ’70 di Margareth Thatcher portò il punk – sottocultura per eccellenza – a sfilare sulle passerelle, eppure nessuno l’accusò di “cultural appropiation”. Ogni forma d’arte, che sia la moda o la musica, spesso tende a utilizzare elementi provenienti da culture differenti, provenienti da contesti culturali difformi, cercando di unirli per creare qualcosa di nuovo e innovativo. La polemica, a mio parere, è sterile: finché la cultura viene omaggiata con rispetto, che sia sulle passerelle, sul grande schermo o nelle radio – dando ovviamente credito alle sue reali origini – non credo ci sia differenza tra ispirazione e appropriazione, perché essere aperti, curiosi, conoscere e onorare altre culture trascende dall’appropriarsene senza rispettarle.

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    La donna dietro Steve Jobs http://www.360giornaleluiss.it/la-donna-dietro-steve-jobs/ Fri, 05 Feb 2016 11:31:33 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5718 Se è vero che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna il nome di quella dietro Steve Jobs è Joanna Hoffman. Poco nota ai più, solo da pochi mesi si sono accesi i riflettori sulla sua storia in seguito al film di Aaron Sorkin e Danny Boyle in cui veniva interpretata da Kate Winslet

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    Se è vero che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna il nome di quella dietro Steve Jobs è Joanna Hoffman.

    Poco nota ai più, solo da pochi mesi si sono accesi i riflettori sulla sua storia in seguito al film di Aaron Sorkin e Danny Boyle in cui veniva interpretata da Kate Winslet che, con questo ruolo, si è guadagnata un Golden Globe e una nomination agli Oscar come miglior attrice non protagonista.

    Nonostante le critiche al film, ispirato alla biografia autorizzata di Walter Isaacson del 2011, l’interpretazione di Kate Winslet è rimasta quasi esente da attacchi, ma anzi è stata accolta da commenti positivi. L’ex marketing executive del Mac, infatti, è l’unica dei protagonisti a dirsi soddisfatta dell’interpretazione data di sé soprattutto in virtù del fatto che sia stata riportata la natura ed il tono del suo rapporto sia personale che lavorativo con Steve Jobs.

    La “travagliata origine europea” (definita così da Steve Jobs all’interno del film) di Joanna Hoffman affonda le sue radici in Unione Sovietica dove nasce da un padre ebreo-polacco (il noto regista Jerzy Hoffman) ed una madre ebrea. Joanna studiò fisica ed antropologia laureandosi in Lettere e Scienze al MIT per poi proseguire con un dottorato in Archeologia presso l’Istituto Orientale dell’Università di Chicago, che non porterà mai a termine. La sua vita cambia quasi per caso, quando i suoi amici la costringono ad andare ad una conferenza della Xeron PARC in California: qui si ritrovò a sostenere una accesa discussione con Jef Raskin su come avrebbero dovuto essere i computer e ciò che avrebbero dovuto fare per migliorare la vita delle persone. Raskin fu così impressionato dalla Hoffman che le chiese di candidarsi per una posizione alla Apple. Così Joanna Hoffman inizia a lavorare nel team Macintosh quando, nell’ottobre del 1980, il Mac era ancora un progetto di ricerca e per il primo anno e mezzo guiderà da sola l’intero settore marketing. Ha scritto lei la prima bozza dell’ User Interface Guidelines per Mac, ha definito il segmento di mercato a cui il prodotto era destinato ed è stata una sua intuizione lanciare il Mac per l’istruzione superiore prima che diventasse un successo attraverso le imprese; divenne international product marketing manager e con il suo team seguì il Mac in Europa ed in Asia, per poi affiancare Steve Jobs nel progetto NeXT come uno dei membri fondatori.

    Nel film viene definita “la moglie al lavoro” di Steve Jobs ma lei stessa smentirà questa definizione nonostante sia stata nota per le sue capacità di lavorare a stretto contatto con un carattere complicato come quello di Jobs tanto da aggiudicarsi per due anni consecutivi (1981 e 1982) il premio ironicamente istituito dalla Apple assegnato annualmente a chi era in grado di tener meglio testa a Steve Jobs.

    Alla Apple Joanna ha incontrato anche l’amore: sposa Alain Rossman e con cui ha due figli. Nel 1995, dopo essere diventata vice presidente del marketing alla General Magic decide di ritirarsi per trascorrere più tempo con la sua famiglia. Vive a Palo Alto dove i figli frequentano la Scuola Internazionale e Joanna fa parte del consiglio scolastico.

    Il suo ruolo all’interno della storia della Apple ha permesso agli scrittori e al regista di riuscire nello scopo dell’intero sceneggiato ovvero mostrare il volto umano di Steve Jobs: nonostante intimidisse molti Joanna non si è mai sentita minacciata dal carattere di Jobs e ritiene che il suo essere una persona difficile fosse dovuto al fatto che pretendesse da chi gli stava attorno di dare il meglio ed essere la migliore versione di sé stessi.

    Quando è stato chiesto a Joanna Hoffman a cosa avrebbe lavorato Jobs se fosse attualmente vivo ha risposto “una parte dell’essere visionario è l’essere imprevedibili”.

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    Una moda Atipica http://www.360giornaleluiss.it/una-moda-atipica/ Sat, 09 Jan 2016 09:19:28 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5590 Sono finiti gli stereotipi e le modelle 90-60-90. Ora tutto ciò che è diverso nel mondo della bellezza viene sempre più apprezzato, proprio come il numero sempre più elevato di modelli “atipici” che posano per le campagne pubblicitarie dei marchi più prestigiosi. Modelle affette da vitiligine, con protesi alle gambe. In fondo, chi ha detto

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    Sono finiti gli stereotipi e le modelle 90-60-90. Ora tutto ciò che è diverso nel mondo della bellezza viene sempre più apprezzato, proprio come il numero sempre più elevato di modelli “atipici” che posano per le campagne pubblicitarie dei marchi più prestigiosi. Modelle affette da vitiligine, con protesi alle gambe.
    In fondo, chi ha detto che il brutto anatroccolo è costretto a diventare un cigno?

    Velo in testa e piercing sul naso. Mariah Idrissi, 23 anni musulmana di Londra, è la prima modella con l’hijab ad apparire in una campagna pubblicitaria di un brand di moda fast-fashion. Nel video di H&M che promuove il ricliclo degli abiti c’è lei (dopo 54 secondi): foulard in testa – abbinato al cappottino rosa – occhiali da sole, tanti gioielli. Di origini pakistane e marocchine, la ragazza che ha il piercing sul naso si è fatta notare su Instagram. Le immagini postate sono prodotte da uno smartphone, ma la posa è quella di una modella professionista, con tanto di broncio, viso di profilo e il collo un po’ piegato. Mariah è bella e lo sa. Con o senza rossetto e eyeliner. «Sono sorpresa di questo successo» ha spiegato con impeccabile accento british. Adesso che è diventata famosa, perché molti giornali hanno parlato di lei, da quelli africani a quelli inglesi, tutte le ragazze musulmane vogliono imitare il suo sistema di «coprirsi» in modo chic.

    I parenti in Pakistan e Marocco non hanno gradito l’esordio di Mariah nella moda. Eppure, i commenti sui social network sono quasi tutti positivi. «Fa guardare la donna musulmana senza paura e disprezzo, ma con una sana curiosità» scrive il blog MuslinGirl. «Siamo fiere di te, finalmente si parla di musulmani in modo positivo» si legge sull’account Instagram di Mariah. Le critiche, poi, ci stanno. Immancabili gli haters. C’è chi pensa che l’esposizione fashion sia in conflitto con la religione. Punti di vista. In ogni caso, nessun ha detto niente quando Mariah ha deciso di aprire un salone di bellezza a Londra, specializzato in henné sul corpo, massaggi marocchini e cura delle mani.

    Aimee Mullins è un’atleta paralimpica, attrice e modella statunitense. È conosciuta per le sue idee sul concetto di corpo e per le sue prestazioni atletiche, nonostante abbia subito l’amputazione di entrambe le gambe quando aveva un anno. Nel 1999, a Londra, ha sfilato per lo stilista inglese Alexander McQueen su delle protesi di legno intagliato a mano, ed è stata nominata dalla rivista People come una delle cinquanta persone più belle del mondo. Nel 2002 è apparsa in Cremaster 3, film dell’artista Matthew Barney, nel ruolo di donna ghepardo. Ne 2006, è apparsa nel film World Trade Center, nel ruolo di un giornalista. Si occupa attivamente di pensiero innovativo, immagine del corpo e problemi legati alle opportunità e all’equità nello sport e nella vita. Su questi temi ha pubblicato articoli ed è stata oggetto di numerose interviste, e in più occasioni è apparsa come oratrice in diverse radio e televisioni, e ha tenuto conferenze al TED e alle Nazioni Unite.

    Winnie Harlow è una top model che ha una malattia della pelle chiamata vitiligine. La vitiligine è una condizione che causa la depigmentazione di parti della pelle e si verifica quando i melanociti, le cellule responsabili della pigmentazione della pelle, muoiono o non sono in grado di funzionare.Winnie ha un coraggio da leonessa e non ha paura di mostrarsi nelle sfilate, sul suo profilo Instagram e a tutto il mondo per la sua condizione, davvero una donna da ammirare!

    Brunette Moffy, ha un piccolo problema agli occhi: è affetta dal cosidetto ‘strabismo di Venere’. Nonostante questo suo piccolo difetto, Brunette è stata ingaggiata da un’agenzia di top model, la Storm Models, che in passato lanciò celebrità come Kate Moss e Cindy Crawford. Il suo debutto nel campo della moda è avvenuto l’estate scorsa, quando la bella Brunette è stata la protagonista della copertina del magazine Pop. Subito è arrivato il successo, forse anche ‘favorita’ dal suo piccolo difetto, elemento distintivo di una bellezza fuori dal comune. “Moffy non era mai stata fotografata per una rivista ed è sempre emozionante lavorare con una persona quando non si sa come potrebbe andare – commenta il fotografo Tyrone LeBon – Ha tutte le misure fisiche di una modella professionista, ciò che la distingue sono proprio gli occhi, belli, enormi e grigio-verdastro , particolari proprio perché non si allineano”.

    Ognuna di queste donne lotta contro un disagio: chi per una problematica fisica, chi estetica, chi sociale. Ogni donna lotta contro dei luoghi comuni, contro dei limiti, delle debolezze, delle incertezze. Ogni donna lotta per un sentimento vero, per una verità che fa paura, per una paura che condiziona ogni giorno. Ogni donna lotta e ci prova, perché provarci e vincere è parte integrante dell’essere donna.

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    Un Natale laico http://www.360giornaleluiss.it/un-natale-laico/ Tue, 05 Jan 2016 14:43:14 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5177 Nel periodo pre-natalizio, tra luminarie cittadine e aria carica di gioia, l’ennesima diatriba è scoppiata: crocifisso si o crocifisso no, recita di Natale si o recita di Natale no, presepe si o presepe no? In alcune scuole dei presidi coraggiosi hanno cercato di rendere i festeggiamenti del natale più laici possibili, per promuovere l’integrazione interreligiosa.

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    Nel periodo pre-natalizio, tra luminarie cittadine e aria carica di gioia, l’ennesima diatriba è scoppiata: crocifisso si o crocifisso no, recita di Natale si o recita di Natale no, presepe si o presepe no?

    In alcune scuole dei presidi coraggiosi hanno cercato di rendere i festeggiamenti del natale più laici possibili, per promuovere l’integrazione interreligiosa. Molti, anzi moltissimi, non l’hanno presa bene. Ecco quindi che ogni talk show pomeridiano si è popolato di mamme infervorate che difendevano presepe, crocifisso e canti natalizi a spada tratta, con una forza e tenacia invidiabili.
    Le proposte alternative dei presidi erano sì prive di tratti strettamente religiosi, ma non di certo dell’allegria che caratterizza le festività per i più piccoli. Si trattava di manifestazioni laiche, che rappresentavano comunque un’occasione per un momento di condivisione serena: anziché la festa di Natale la festa d’Inverno, anziché “Tu scendi dalle stelle” si cantavano gli inni alla pace come “Imagine” di John Lennon per esempio, anziché solo bambini cristiani tutti i bambini potevano festeggiare insieme.

    I presidi in questione sono stati trascinati in un vortice di polemiche senza fine, genitori su tutte le furie hanno scritto lettere, chiamato politici e contattato giornalisti. Così da una diatriba locale si passa al dibattito nazionale; l’Italia si divide : la maggioranza difende la presenza della religione in un’ istituzione pubblica come la scuola, in quanto simbolo della tradizione italiana, e una sparuta minoranza rivendica la laicità dello Stato.

    La polemica in questione è stata strumentalizzata da alcune figure politiche, che hanno veicolato le proteste contro coloro che venivano dipinti come i “colpevoli”, ovvero gli immigrati. La frase “ Se non volete il crocifisso e il presepe, tornatevene al vostro paese!” è rimbalzata di canale in canale, inneggiando alla protezione della cultura italiana. Ma se a chiedere festeggiamenti laici nella scuola fosse un italiano, in quale paese dovrebbe tornare? Se sei italiano e chiedi una cosa del genere allora vieni tacciato di essere “meno italiano”, perché questo è quello che siamo. Se non conosci la poetica di Petrarca, la brillante dottrina politica di Macchiavelli, il concetto di umorismo di Pirandello e la genialità di Marconi puoi comunque arrogarti il diritto di ergerti a difensore della cultura italiana; ma se non vuoi simboli religiosi nei luoghi pubblici sei “italiano a metà”.

    Da un punto di vista giuridico, i crocifissi non sono vietati nelle scuole; da anni infatti non c’è chiarezza sulla questione. Si tollera silenziosamente una presenza imposta da i regi decreti 965/1924 e 1297/1928:
    « Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re. »
    « Tabella degli arredi e del materiale occorrente
    nelle varie classi e dotazione della scuola.
    Prima classe.
    1. Il crocifisso.
    2. Il ritratto di S. M. il Re.
    (..) »
    Da qui in poi lo Stato si è come addormentato sui due decreti, ribadendo in modo nebuloso la validità degli stessi senza mai però aggiornare la legge in modo chiaro e insindacabile. La Corte europea per i diritti dell’uomo, il 3 novembre 2009 con la sentenza Lautsi v. Italia proclamò che il crocifisso nelle aule è “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione”, sentenza ribaltata poi dalla Grand Chambre. Nonstante decreti regi e sentenze, esiste la Costituzione che stabilisce (artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20) la laicità dello Stato Italiano.

    Allora, al di là della validità giuridica o meno, non rimane che chiederci che cosa rappresentano davvero per noi il crocifisso, il presepe e le recite natalizie.

    Siamo così spaventati dal progresso e dal cambiamento culturale da legarci spasmodicamente a certi tipi di simbolo o siamo semplicemente troppo arretrati per accettare il fatto che si può vivere la fede anche in maniera privata?

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