Ottava nota – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Sun, 18 Feb 2018 20:38:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png Ottava nota – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 Indie’s Post #9: I Cani http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-9-cani/ Thu, 13 Apr 2017 14:34:43 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8499 La musica unisce. Le testimonianze della veridicità di quest’affermazione risalgono alla notte dei tempi. La musica univa nei riti sacri, in guerra, ed univa i matematici pitagorici. Grazie al lavoro di Aristosseno di Taranto, primo scrittore di teoria musicale della storia, la musica ha iniziato ad unire anche persone semplicemente accomunate dallo stesso gusto, e

The post Indie’s Post #9: I Cani appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
La musica unisce. Le testimonianze della veridicità di quest’affermazione risalgono alla notte dei tempi. La musica univa nei riti sacri, in guerra, ed univa i matematici pitagorici. Grazie al lavoro di Aristosseno di Taranto, primo scrittore di teoria musicale della storia, la musica ha iniziato ad unire anche persone semplicemente accomunate dallo stesso gusto, e non solo dallo svolgimento di un medesimo compito.

Passando per teatri, chiese e grammofoni, si arriva ad oggi.

Oggi la musica è ovunque, tutti la ascoltano e tutti la conoscono. Probabilmente non esiste persona al mondo che non sia capace di cantare almeno una canzone a memoria. Stando a questo ragionamento, dovremmo essere tutti uniti. Ma, naturalmente, non è così.

Perché, se è vero che la musica ha il potere di unire, il genere di musica che riesce ad affermarsi ha il potere di distinguere. Gli esempi più lampanti di questa situazione sono il blues, genere musicale che esprime la cultura e la vita degli schiavi neri in America, e il punk, che ha raggruppato sotto quelle batterie in quattro quarti e quelle chitarre distorte tutti i ragazzi che sentivano di volersi ribellare contro un sistema autoritario e capitalista. Potrei anche citare il reggae, il rap, il rock, ma immagino il concetto sia piuttosto chiaro.

Il genere musicale, dunque, è a mio parere “arma di distinzione di massa”. E l’indie italiano è diventato tale grazie a I Cani, gruppo romano capitanato da Niccolò Contessa. Gli artisti, infatti, sono riusciti in relativamente poco tempo a dettare nuove regole della musica, creando una tendenza, una moda, nel modo più ovvio ed efficace che esista: essendo semplicemente loro stessi.

Ciò che fanno naturalmente non è privo di influenze del passato, ma hanno senza dubbio saputo attingere dai migliori: l’uso costante e caratteristico del sintetizzatore, ad esempio, trae spunto direttamente dai Baustelle e da Franco Battiato; le linee di basso e batteria sono un leggero eco del brit pop di inizio 2000; e la costruzione dei testi si va ad incastrare perfettamente nel contesto in cui operano, ossia l’inizio di un indie rivolto agli ascoltatori pop.

Sulle parole, tuttavia, è opportuno soffermarsi, poiché ritengo Contessa un genio indiscusso del songwriting. All’interno dei vari album le influenze cambiano, si passa dal rock ad un synth pop che, definendosi sempre di più, arriva a sfociare nell’ultimo capolavoro, Aurora. Tra le varie immagini che ci vengono raccontate, tuttavia, possiamo definire sommariamente gli argomenti proposti al pubblico, in primis una divertente satira contro gli adolescenti romani, alcuni dei quali sono convinti che essere più tormentati ed ostentare tristezza equivalga a distinguersi in positivo e risultare più intelligenti. Ovviamente così non è, e I Cani ce lo spiegano in Hipsteria, il loro primo singolo, e in Asperger. I pariolini di diciott’anni e Le coppie sono altri ottimi esempi di questa satira sulla gioventù di Roma. Poi c’è la vita della classe lavoratrice, nella cui narrazione non manca naturalmente un pizzico di ironia tipica di Contessa. Velleità ci racconta ad esempio in che modo la gente che ormai deve quotidianamente affrontare responsabilità come lavoro e famiglia tenti di ancorarsi a ciò che era, riempiendo le giornate con velleità e passioni continuamente nuove.

Ma probabilmente potrei riassumere quest’intero punto citando le prime parole di Storia di un impiegato, traccia che dal titolo fa pensare a De Andrè, maestro del cantautorato, e che nel testo contiene una citazione di Gennaio dei Diaframma – gruppo post punk anni Novanta guidato da Federico Fiumani – ossia il verso “Parte dei soldi li spesi in assoluta allegria”. Dunque, le prime parole di questa traccia sono: “In vacanza un’estate ho scoperto / che esiste gente che fa i concorsi / e non concorsi tipo Premio Tenco / ma concorsi tipo in Ministero”. Si giunge quindi al terzo grande campo di interesse del gruppo: l’amore disincantato, fatto di sguardi, di realismo, e di speranza che in un mondo che si muove come una macchina ci sia ancora posto per un’emozione così pura. Lo vediamo in Il posto più freddo, brano dall’incredibile profondità, che narra una solitudine tormentata e costante che si interrompe soltanto nei brevi momenti in cui il protagonista si sente innamorato. Nella traccia Questo nostro grande amore abbiamo un perfetto riassunto di questo concetto, poiché l’amore è inserito in un mondo che ormai si muove soltanto con l’economia, e dunque è necessario che i due elementi di incastrino in modo ottimale.

Inutile spiegare che non sarebbe esaustivo né corretto ridurre i testi de I Cani a queste tre grandi categorie, dal momento che hanno davvero molto da raccontare, e non si accontentano mai di ciò che hanno fatto, ma continuano a sperimentare, a scrivere, a provare.

Si può dire che, grazie al gruppo di Contessa, scrivere testi e creare suoni oggi sia ben diverso dal passato. Infatti, come già accennato, a loro va riconosciuto il merito di aver apportato una forte innovazione alla musica italiana, rendendo un vero e proprio fenomeno discografico quello che prima era un fenomeno di nicchia, rappresentato dai Verdena, dai Baustelle e da pochi altri gruppi.

In conclusione, I Cani sono uno dei migliori gruppi nel panorama indie, e senz’altro sono coloro che hanno dato il maggiore contributo a questa grande nuova tendenza.

The post Indie’s Post #9: I Cani appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
8499
Musica leggera per giorni inquieti: i Baustelle all’Auditorium http://www.360giornaleluiss.it/musica-leggera-giorni-inquieti-baustelle-allauditorium/ Tue, 14 Mar 2017 13:37:23 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8287 “Build the modern chansonnier!” finiva così Il musichiere 999, traccia che chiudeva Sussidiario illustrato della giovinezza, album d’esordio dei Baustelle. Correva, appunto, il 1999. Il nuovo millennio ci veniva incontro e non temevamo che le vorticose voglie di allora sarebbero poi finite annegate nelle disillusioni di questi anni scricchiolanti, nuova belle époque post-moderna, in cui

The post Musica leggera per giorni inquieti: i Baustelle all’Auditorium appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Build the modern chansonnier!” finiva così Il musichiere 999, traccia che chiudeva Sussidiario illustrato della giovinezza, album d’esordio dei Baustelle. Correva, appunto, il 1999. Il nuovo millennio ci veniva incontro e non temevamo che le vorticose voglie di allora sarebbero poi finite annegate nelle disillusioni di questi anni scricchiolanti, nuova belle époque post-moderna, in cui continuamente sfioriamo il baratro dell’angoscia (quella, ormai sempiterna, “Age of Anxiety” di cui parlava già Auden). Il gruppo di Montepulciano, allora nato da poco, ci narrava in Sussidiario il suo racconto crudele della giovinezza, delle adolescenze a cui in tanti non riusciamo a dire addio. Ma era chiaro sin da allora che da mettere in musica ci sarebbe stato molto altro ancora.

Quest’anno, ormai maggiorenni, i Baustelle sono tornati con il loro nuovo lavoro L’amore e la violenza, il cui nome è preso in prestito dalla traccia conclusiva dell’album Sexuality di Sébastien Tellier. Le influenze della cultura francese (non solo musicale) non sono d’altronde mai mancate nei loro testi e ritmi: per dirne solo un’altra, la traccia che apre la seconda parte dell’album, La musica sinfonica, pare strappata dalla discografia di Dalida.

Il tour de L’amore e la violenza, uscito lo scorso tredici gennaio dopo il lancio del singolo Amanda Lear (brano che si presta molto al passaggio in radio, un po’ meno alla esecuzione dal vivo), ha già registrato più sold out in tutta Italia. Ieri, finalmente, il turno della prima delle due date romane all’Auditorium (si replica, infatti, il trenta aprile). Dopo l’apertura di Lucio Corsi, il trio Bianconi-Bastreghi-Brasini s’è tuffato immediatamente in una esecuzione per intero del loro settimo album, dedicando a questo la prima parte del concerto, senza lasciare indietro neanche i due brani strumentali Love e Continental Stomp. Nei nuovi testi dei Baustelle non c’è più la Natura eterna e immobile de La canzone del parco, che faceva da sfondo agli “attimi / degli amanti giovani / degli amori giovani”, non ritornano più né le immagini claustrofobiche dei riformatori e delle scuole, né quelle della provincia e delle grandi metropoli sudicie, che inghiottivano e vomitavano indietro i corpi di chi le animava. La nuova “terra desolata” di Bianconi (quella “Waste Land” già di Eliot) non è nemmeno quella dei cimiteri di Fantasma, ma trova spazio, invece, allargandosi in cerchi concentrici, per questioni attuali ben più grandi: il conflitto siriano, il dramma dei migranti e dei corpi restituiti dalle onde, moderna tratta degli esseri umani (Eurofestival, Il vangelo di Giovanni), i social network ed i giovani, il tracollo dell’Unione Europea (Betty), gli attentati che scuotono il clima internazionale (L’era dell’acquario). L’amore e la violenza non muovono più i giochini erotici della giovinezza e le vite sporche e barocche delle flagellate anime metropolitane, ma l’Universo intero. Il sesso, gli umani fragili, le nazioni, il mondo, turbinano senza un preciso ordine, seguendo uno schema malato e distorto, da strappare e ricucire. Ricucire, sì, perché, almeno questa volta, c’è di più: la speranza di “un bellissimo mattino, senza più dolore”, uno dei tanti piccoli spiragli di luce polverosa seminati qua e là (“essere felici non è facile / è folle ma è possibile”), forse frutto della neo-paternità di Bianconi. Proprio lui su Ragazzina, dedicata alla sua bambina, si lascia sfuggire: «ci son due errori che un artista può fare: scrivere le canzoni di Natale o sui figli; ecco, questa qui è due errori insieme».

Nella seconda parte, una scaletta più che ecumenica lascia contenti tutti: ben tre tracce di Sussidiario, per i più affezionati e nostalgici, (Gomma, La canzone del parco, La canzone del riformatorio), due de La Malavita (La guerra è finita, Un romantico a Milano) come anche di Amen (Charlie fa surf, L’aeroplano), La moda del lento dell’album omonimo e Monumentale tratta dal più recente Fantasma. Non paghi della generosità, si concedono un inedito dal titolo Veronica due e Bruci la città, scritta per Irene Grandi proprio da Bianconi. E, come si confà a un gran finale, con l’intero Auditorium finalmente in piedi, il foyer della Sala Santa Cecilia gremito di spettatori che abbandonano le poltrone di velluto rosso per precipitarsi sotto al palco, tutto si chiude con Le rane, canzone manifesto di una generazione che, per il lavoro o l’università, ha detto addio agli stagni, alle acque morte della provincia per poi, ennesima disillusione, ritrovarsi a sguazzare nelle fogne della grande città.

Build the modern chansonnier!”, “Lo scrivi sì, lo scrivi o no, il tuo romanzo erotico?”, “È necessario vivere, bisogna scrivere.” Ci chiedevano in Sussidiario e Amen. Continueremo a scrivere e ad amare, allora, per smussare i contorni di questi tempi urlati e livorosi; giocheremo al “sopravvivere alle stragi” (riempiendo, però, ancora i teatri, quasi come per dispetto). Cureremo i lividi della bellezza, da sempre meta ultima dei Baustelle, che più del lavoro e della fatica, rimane il gioco vero della vita, un abbagliante caos d’amore e di violenza.

The post Musica leggera per giorni inquieti: i Baustelle all’Auditorium appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
8287
Indie’s Post #8: Gazzelle http://www.360giornaleluiss.it/8265-2/ Thu, 09 Mar 2017 14:21:00 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8265 Era solo questione di tempo prima che la scena indie entrasse in contatto con un genere altrettanto “indipendente”: il vaporwave. Per chi non lo conoscesse, il vaporwave è uno stile volto esteticamente a richiamare il mondo digitale e pubblicitario degli anni Novanta, soprattutto quello giapponese, che vede prevalere l’utilizzo di colori come il fucsia e

The post Indie’s Post #8: Gazzelle appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Era solo questione di tempo prima che la scena indie entrasse in contatto con un genere altrettanto “indipendente”: il vaporwave. Per chi non lo conoscesse, il vaporwave è uno stile volto esteticamente a richiamare il mondo digitale e pubblicitario degli anni Novanta, soprattutto quello giapponese, che vede prevalere l’utilizzo di colori come il fucsia e il viola, fotomontaggi di statue greche, palme e tramonti. Musicalmente è invece più difficile da definire, ma sicuramente è una parodia della musica new age, contenente sonorità rilassanti e a volte quasi “liquide”.

E come c’era da aspettarsi, questa contaminazione è avvenuta a Roma, la città in cui l’indie è più aperto ad influenze e contaminazioni. A tutto questo, aggiungiamo una batteria elettronica tipicamente rap, e sintetizzatori che possiamo vedere come la diretta evoluzione di quelli usati da I Cani, ed otteniamo Gazzelle.

L’artista ha esordito il 3 marzo con il suo primo album, Superbattito, album che parla di mancanze, di noia e di ricordi. I testi sono tutto sommato molto chiari, si basano sulle immagini, talvolta inutili e che raccontano situazioni di poco conto ma che probabilmente hanno un forte legame affettivo col cantante, talvolta intense e nostalgiche. Ascoltando le tracce, si può notare la costante presenza di questi elementi, continuamente in bilico tra speranza e rassegnazione.

Scoprii Gazzelle grazie ad un’amica che mi mandò una delle sue prime canzoni, NMRPM. La scelta del titolo mi sembrò molto singolare, dal momento che fino ad ora questa formula era stata usata soprattutto nel mondo del rap, per esempio nel brano di Sfera Ebbasta BRNBQ. Per fortuna capii subito cosa volesse dire, dal momento che le prime parole della canzone sono “Non Mi Ricordi Più il Mare”, ma la voce mi urtò. La trovavo stonata, troppo poco elaborata, ed eccessivamente “di gola”. A distanza di qualche settimana, potrei semplicemente definirla sincera.

L’equalizzazione dei pezzi è decisamente perfetta, le sonorità, come accennato in precedenza, sono un incontro tra una drum machine rap e una tastiera, a metà tra il vaporwave e il synth pop – Gazzelle ama definire il suo genere “sexy pop”. Le linee melodiche rimandano in generale alla musica italiana di inizio Duemila: effettivamente non mi avrebbe stupito vedere Gazzelle esibirsi tra le nuove proposte di un festival di Sanremo di quegli anni. Ciò è dovuto, come ha dichiarato egli stesso in un’intervista, all’influenza che hanno esercitato su di lui artisti come Battiato, Cremonini, Vasco, ma più di tutti Rino Gaetano.

Per quanto riguarda il personaggio, c’è chi sostiene che sia costruito e che tenti di ostentare un alone di mistero che non gli appartiene. Per me, si tratta semplicemente di un ragazzo che a volte indossa occhiali da sole e ha foto di sé sfocate, ma non è affatto misterioso. È invece molto chiaro, molto diretto. Una personalità decisamente genuina all’interno di una corrente musicale che si sta snaturando per la corsa ai follower.

In conclusione, consiglierei Superbattito davvero a chiunque, e per il resto staremo a vedere.

The post Indie’s Post #8: Gazzelle appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
8265
Indie’s Post #7: Le luci della centrale elettrica http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-7-le-luci-della-centrale-elettrica/ Thu, 02 Mar 2017 15:20:56 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8214 È possibile presentarsi su un palco senza nulla da dire, dirlo in modo pessimo e aggiudicarsi premi e seguito? Se me lo avessero chiesto prima del 2011 avrei risposto di no, facendo riferimento a una qualche meritocrazia musicale che premia chi davvero è in grado di trasmettere un messaggio. Ma, purtroppo, è stato proprio quell’anno

The post Indie’s Post #7: Le luci della centrale elettrica appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
È possibile presentarsi su un palco senza nulla da dire, dirlo in modo pessimo e aggiudicarsi premi e seguito? Se me lo avessero chiesto prima del 2011 avrei risposto di no, facendo riferimento a una qualche meritocrazia musicale che premia chi davvero è in grado di trasmettere un messaggio. Ma, purtroppo, è stato proprio quell’anno che ho conosciuto Vasco Brondi, e sono per sempre tramontate le speranze che io, piccolo chitarrista tredicenne, nutrivo nei confronti della meritocrazia musicale sopracitata.

Le luci della centrale elettrica esordiscono nel 2008 (dopo un demo autoprodotto, ndr) con l’album Canzoni da spiaggia deturpata, un’opera caratterizzata da sonorità cupe e pulite, e dalla costante presenza della chitarra acustica. Tuttavia, non è questa l’unica costante riscontrabile in tutte le tracce: infatti, a metà di ciascun brano, Brondi smette di cantare e inizia a urlare il testo, e non usa più di quattro accordi. In poche parole, complimenti a chi l’ha prodotto (non a caso, Giorgio Canali), ma l’avrebbe potuto comporre chiunque.

Per non parlare dei testi: flussi di coscienza non meglio identificati, immagini che scorrono senza un senso e senza significato, prive di intensità e di qualsiasi intento comunicativo. “Centimetri tra le nostre bocche come un contratto andato a male, le istruzioni per abbracciarsi e per ballare tra gli scompartimenti delle metropolitane”: un testo del genere è comprensibile che piaccia alle ragazzette di quattordici anni che hanno per la prima volta a che fare con Tumblr e con i film drammatici sulla tossicodipendenza.

Ma non vedo come, superata quell’età, una persona possa davvero prendere sul serio questa grande strategia di mercato tirata su per dare un nome e un cognome all’indie italiano, con poco impegno nella composizione, ancor meno impegno tecnico, e un ottimo lavoro eseguito prima e dopo su ogni singolo suono.

Comunque, naturalmente, Canzoni da spiaggia deturpata si aggiudica la Targa Tenco, il premio FIMI, il premio MEI, il premio Musica & Dischi, e il premio Fuori dal Mucchio. Insomma, questo progetto ha davvero preso in giro chiunque, illudendo persino la critica che dietro quei testi scritti con il tasto centrale del correttore automatico di uno smartphone ci fosse un profondo significato, e un artista interessante e poliedrico, originale e da scoprire. Evidenti i riferimenti, nelle varie tracce, a Giovanni Lindo Ferretti, storico frontman dei CCCP, e Rino Gaetano, nella parte finale di Nei garage a Milano nord.

Il secondo album, Per ora noi la chiameremo felicità, è esattamente identico al primo. Chitarre acustiche, tristezza cronica, testi su cui è seriamente meglio sorvolare, e un seguito ancora maggiore. Insomma, un’ulteriore conferma della poca originalità e della scarsità di contenuti su cui il progetto si poggia.

Il terzo album, Costellazioni, rappresenta invece una svolta: dopo cinque anni, finalmente vediamo un minimo di contenuto, qualche connessione logica in più, quasi la parvenza di un messaggio, sonorità leggermente più fresche. Ma, ancora una volta, nulla di che. Quell’album è la terza conferma che investire sul nulla è un ottimo investimento.

In conclusione, il progetto Le luci della centrale elettrica è stato quello giusto, al momento giusto. In un periodo in cui leggere Bukowski è ritenuto leggere, ascoltare Vasco Brondi è equivalso ad ascoltare musica impegnata e seria.

Tanto di cappello, e solidarietà ai fan.

The post Indie’s Post #7: Le luci della centrale elettrica appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
8214
Indie’s Post #6: Iosonouncane http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-6-iosonouncane/ Thu, 23 Feb 2017 15:34:35 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8151 È ormai noto che nel mondo della musica i nomi che siamo abituati a sentire e gli artisti che conosciamo sono soltanto la punta di un iceberg ben più grande di quanto possiamo immaginare: e accade dunque che molti artisti siano dimenticati, che agiscano nell’ombra, con pochi seguaci e una visibilità quasi nulla. A volte

The post Indie’s Post #6: Iosonouncane appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
È ormai noto che nel mondo della musica i nomi che siamo abituati a sentire e gli artisti che conosciamo sono soltanto la punta di un iceberg ben più grande di quanto possiamo immaginare: e accade dunque che molti artisti siano dimenticati, che agiscano nell’ombra, con pochi seguaci e una visibilità quasi nulla.

A volte però, alcuni di loro riescono col tempo a emergere, non si sa per quale preciso motivo. Probabilmente, per un fortunato caso, riescono a comporre il pezzo giusto al momento giusto, godendo in poco tempo del favore del pubblico e di una maggiore visibilità, che talvolta può anche essere immeritata.

Non è questo il caso di Iosonouncane. Jacopo Incani (vero nome del cantautore) è a mio parere uno degli artisti più sinceri ed originali che il vasto mondo dell’indie italiano può vantare. L’ho scoperto davvero per caso: dopo aver finito di suonare con il mio gruppo in un locale, ho visto un ragazzo prendere una chitarra classica messa a disposizione dei clienti e iniziare a suonare Stormi, il brano più celebre dell’ultimo album dell’artista, DIE. Mi piacque la linea cantata, ma non capii bene il testo.

Approfondendo l’ascolto, decisi di effettuare una ricerca indietro nel tempo. Le tematiche affrontate in DIE sembrano un punto d’arrivo, un momento di riposo: descrizioni di paesaggi naturali e personificazioni di elementi, oltre all’uso di numerose espressioni ricorrenti. Iosonouncane non poteva essere solo questo, la complessità musicale e le sonorità sospese tra il poco curato e l’elaborato mi facevano pensare che l’artista avesse alle spalle un lungo percorso fatto di sperimentazione, prove, e sicuramente studio.

Ho quindi avuto il piacere di ascoltare il suo primo album, La macarena su Roma, che lo portò nel 2011 a concorrere come finalista per il Premio Tenco, e in cui spiccano le capacità compositive del cantautore: testi schietti, disarmanti, che raccontano storie di una realtà cittadina e metropolitana in cui la gente ha sempre l’ossessione del “fare”, fino ad annullarsi, fino a prendere parte a quelli che sono ormai riti collettivi senza alcuna piacevolezza.

È inevitabile che, alla fine di una qualsiasi traccia dell’album, l’ascoltatore si trovi a vedere il mondo dagli occhi dell’artista, provando le sue stesse emozioni, come la noia per la monotonia umana e il tormento che deriva da un’indole incredibilmente riflessiva, fino a sentire anch’egli che “Iosonouncane”. Unico sotto quest’aspetto, insieme ai Uochi Toki.

Determinante, nelle strumentali, è l’uso del launchpad, attraverso il quale l’artista crea loop ritmici particolarmente articolati, a volte complessi. Ed un’immancabile chitarra acustica che fa intuire facilmente quale sia il background musicale di Jacopo, ossia tutta la “vecchia scuola” del cantautorato italiano.

In realtà sulla produzione di Iosonouncane ci sarebbe fin troppo da dire, anche se prendiamo in considerazione il gruppo del quale faceva parte prima di intraprendere la carriera solista, gli Adharma, tuttavia ritengo che sia definibile con poche parole: eterna evoluzione.

Il cantautore sardo non ha paura di osare, di esagerare, di presentare al pubblico feroci denunce di un’alienazione mentale sempre più opprimente, né ha paura di non parlare di nulla, di descrivere scenari oserei dire “bucolici”, nei quali ogni elemento ha un’anima, e il ciclo della natura vive e si ripete ogni momento.

Un artista coraggioso, sincero, da consigliare a chiunque, ed ancora troppo poco conosciuto.

The post Indie’s Post #6: Iosonouncane appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
8151
Indie’s Post #5: Thegiornalisti http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-5-thegiornalisti/ Thu, 24 Nov 2016 07:42:52 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7651 Quando si parla dei Thegiornalisti non ci sono risposte, solo domande. Sono fermamente convinto che ci siano artisti indie che meritano davvero di essere conosciuti, dal momento che presentano contenuti originali, sonorità interessanti, e hanno belle storie da raccontare. Motta è uno di loro, giusto per fare un esempio, ma come lui molti altri, i Uochi

The post Indie’s Post #5: Thegiornalisti appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Quando si parla dei Thegiornalisti non ci sono risposte, solo domande.

Sono fermamente convinto che ci siano artisti indie che meritano davvero di essere conosciuti, dal momento che presentano contenuti originali, sonorità interessanti, e hanno belle storie da raccontare. Motta è uno di loro, giusto per fare un esempio, ma come lui molti altri, i Uochi Toki, PoP_X, L’orso, Dellera… Insomma, l’indie è pieno di artisti che meritano di emergere perché valgono tanto, in quanto non convenzionali a livello di espressione e scelta dei suoni.

E poi ci sono i Thegiornalisti. Li ascoltai la prima volta in pullman, vicino a me era seduto un ragazzo con le cuffie, che ascoltava Il tuo maglione mio a un volume così alto da permettermi di capire anche il testo. Le ultime parole del ritornello, “fino alle ginocchia”, si impressero a fuoco nella mia mente, e  informandomi scoprii questo gruppo ed iniziai ad ascoltarlo.

Non mi piacque, e come spesso mi succede di fare quando un artista non mi piace, lanciai a me stesso una sfida: avrei trovato almeno un motivo per cui apprezzare i Thegiornalisti. La sfida va avanti da un paio di settimane, e credo che continuerà ancora per molto. Ma mi sembra opportuno argomentare, onde essere accusato di superficialità.

Partiamo dalla caratteristica che solitamente analizzo per ultima: i testi. Le canzoni dei Thegiornalisti mi hanno fin da subito spiazzato per la banalità delle parole e dei contenuti.  Pochissime azzardate e mal riuscite costruzioni di immagini; frasi piene di pronomi personali, usati di solito per bilanciare la metrica dei versi; ripetizioni di concetti già espressi a inizio canzone, utili solo ad estendere la durata dei brani fino a una media di quattro minuti l’una; rime, o più frequentemente assonanze, di livello pressappoco simile a “cuore-amore”.

Per quanto riguarda il suono, il discorso è leggermente diverso: le sonorità sono impeccabili. Dietro a ogni loro pezzo c’è un lavoro di effetti ed equalizzazione di livello incredibilmente alto, nel quale viene raggiunta l’armonia perfetta di tutti gli strumenti, ed ogni suono diventa mattone di una costruzione armoniosa. Che sia bella o brutta, non è compito mio dirlo. Tuttavia, anche la sonorità è terribilmente banale: la voce impostata come quella di Grignani segue la metrica di Max Pezzali con il respiro dei Tiromancino; la tastiera suona un giro maggiore con un suono sospeso tra i primi lavori dei Cani e il novanta percento del pop italiano di inizio duemila; la chitarra fa il suo dovere senza nulla aggiungere e senza nulla togliere al pezzo, e lo stesso si può dire del basso; la presenza ritmica non è forte né debole, dal momento che le linee di batteria sono moderate e ben bilanciate.

I Thegiornalisti non incontrano affatto i miei gusti personali, ma è innegabile che la musica che fanno, la fanno bene. Tuttavia, posso affermare con sicurezza che, anche ammesso che abbiano creato qualcosa di bello, non hanno assolutamente creato nulla di nuovo.

Mi pongo dunque una domanda: hanno reso l’estrema banalità il loro genere, o sono caduti nell’estrema banalità cercando di essere originali?

La mia valutazione definitiva sui Thegiornalisti dipende principalmente dalla risposta a questo quesito, perché nel primo caso questo “ritorno alla convenzionalità” diventerebbe il loro tratto caratteristico, la loro originalità. Nel secondo caso, significa che non hanno nulla da dire.

In conclusione, li definirei nel seguente modo: un gruppo ben costruito, ma con acqua e sabbia.

The post Indie’s Post #5: Thegiornalisti appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
7651
Indie’s post #4: Motta http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-4-motta/ Thu, 17 Nov 2016 11:04:50 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7560 Non avevo la benché minima idea che nel 2009 i Criminal Jokers avessero inciso This Was Supposed To Be The Future. A dire il vero, prima di documentarmi sul passato di Motta non ero neanche a conoscenza che il cantante livornese avesse già una band nel 2009, e non mi aspettavo di certo che fosse

The post Indie’s post #4: Motta appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Non avevo la benché minima idea che nel 2009 i Criminal Jokers avessero inciso This Was Supposed To Be The Future. A dire il vero, prima di documentarmi sul passato di Motta non ero neanche a conoscenza che il cantante livornese avesse già una band nel 2009, e non mi aspettavo di certo che fosse una copia degli Arctic Monkeys più aggressiva e trasandata.

Per fortuna, tuttavia, Motta ha deciso di intraprendere recentemente la carriera solista, pubblicando il disco La fine dei vent’anni. E, a parer mio, il 2016 non poteva chiudersi in modo migliore. Quell’album è la “summa” di tutte le ultime tendenze che hanno caratterizzato l’indie in Italia. Una piccola enciclopedia che parte da Le luci della centrale elettrica e arriva fino agli ultimi lavori di Calcutta.

Non vorrei essere frainteso: Motta non ha copiato nessun altro artista, ha semplicemente saputo trarre tutto il meglio dalla musica di cui anche lui si trova ad essere esponente. Se io, ora, dovessi immaginare il “perfetto pezzo indie”, avrebbe una chitarra elettrica arpeggiata oltre il decimo tasto, con un po’ di reverb, una batteria molto presente ma non eccessivamente varia, più di una voce, una tastiera pulita, un basso non forte ma che abbia il suo peso, e la tonalità minore. D’altronde, se ho ascoltato cinque volte di fila Prima o poi ci passerà, ci dovrà pur essere un motivo.

E poi, le parole. I testi di Motta contengono il perfetto equilibrio tra costruzione di immagini, verosimiglianza ed espressione di una sensazione.  L’artista è riuscito a trasmettere con pulizia, a volte con eleganza, ma d’altro canto anche con schiettezza un messaggio molto originale: attraverso le varie tracce dell’album ci viene raccontata la storia di una crescita, con punti di vista che cambiano, speranze e rassegnazioni, sogni e responsabilità, ragazze che vogliono ballare e non pensare a nulla, e ragazze che invece pensano troppo. Ci vengono raccontate le emozioni di un artista in bilico tra l’essere ragazzo e l’essere uomo, che tenta di trovare il suo posto nel mondo.

Un’opera delicata, diretta, apprezzabilissima, nella quale si sente anche l’influenza di Riccardo Sinigallia, produttore dell’album, e ciò si riconosce soprattutto nell’estrema limpidezza delle chitarre, e nelle linee cantate abbastanza varie ma prive di qualsiasi virtuosismo.

Insomma, senza alcun dubbio posso definirlo il migliore album indie dell’anno.

Motta ha molto da raccontare e ha capito bene che non esiste occasione migliore del “qui ed ora”.

The post Indie’s post #4: Motta appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
7560
Indie’s post #3: Uochi Toki http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-3-uochi-toki/ Thu, 03 Nov 2016 14:40:17 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7367 Già conosciuti un tempo, anche se solo da alcuni, con il nome di Laze Biose, i Uochi Toki sono probabilmente annoverabili tra i migliori artisti della scena indie italiana. Li scoprii casualmente grazie ad un’immagine sulla quale erano scherzosamente riportati i livelli di “disagio” raggiunti da alcuni artisti, e mi interessarono fin da subito dal

The post Indie’s post #3: Uochi Toki appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Già conosciuti un tempo, anche se solo da alcuni, con il nome di Laze Biose, i Uochi Toki sono probabilmente annoverabili tra i migliori artisti della scena indie italiana. Li scoprii casualmente grazie ad un’immagine sulla quale erano scherzosamente riportati i livelli di “disagio” raggiunti da alcuni artisti, e mi interessarono fin da subito dal momento che, secondo quell’immagine, erano sul podio.

Il ladro fu il primo pezzo che ascoltai: non immaginavo che facessero rap, non avevo in realtà mai pensato che anche il rap potesse essere indie. Fu in quel momento che iniziai a capire quanto l’indie fosse un genere trasversale. Mi colpì fin dai primi secondi la pesantezza della base, costituita unicamente da frequenze troppo alte e troppo basse, senza vie di mezzo: la distorsione e la tonalità minore non facevano altro che rendere ancora più duro un beat già particolare per la scelta del suono.

Poi iniziarono le frequenze medie della voce, e fu amore a primo ascolto: mi piacque subito la voce di Napo, il flow, e la totale rottura degli schemi della metrica rap convenzionale. Nonostante infatti modulasse il tono della voce come se stesse chiudendo una rima ad ogni verso, effettivamente non lo faceva quasi mai. Era più facile trovare rime in mezzo al verso, particolare che potrebbe rendere le linee cantate piuttosto indisponenti. Ma, per fortuna, non ero un appassionato di rap e non mi vennero in mente i classici discorsi sull’importanza dell’old school, della metrica perfetta, del vecchio flow, né ebbi bisogno di ripensare a Joe Cassano o agli Uomini di Mare, sventolando i loro nomi come vessilli inattaccabili.

Dovetti riascoltare il brano una seconda volta per fare caso al testo e per capire meglio il video. Il linguaggio mi sembrò in alcuni punti abbastanza complesso, sembrava fosse opera di uno scrittore, non di un songwriter, dal momento che la classica scansione formulare strofa-ritornello era del tutto assente, e come ho già detto la metrica era totalmente libera ed incondizionata.

Tanto per cambiare, come ho fatto con molti altri gruppi, archiviai i Uochi Toki per poi riascoltarli più approfonditamente tempo dopo. In particolare feci attenzione a Laze Biose, e Cuore Amore Errore Disintegrazione. I due album sono molto diversi tra loro, il primo più minimalista, titoli brevi, basi simili a quella de Il ladro, testi semplicemente unici nel loro genere, alcuni simili a poesie, altre a sfoghi personali, colmi di critiche sociali ben più acute e argomentate dei classici testi “da primo maggio”.

Laze Biose mi servì dunque per confermare la mia visione dei Uochi Toki come outsiders della musica indie. Cuore Amore Errore Disintegrazione, però, probabilmente mi cambiò la vita. La prima caratteristica che mi attirò e che mi spinse ad ascoltarlo, fu la particolare scelta dei titoli, che talvolta terminavano o iniziavano con segni di punteggiatura, o nessi relativi. Scoprii poco dopo che leggendoli in ordine, si otteneva un vero e proprio discorso.

Procedetti all’ascolto dell’album: un’ora e cinque minuti di pura filosofia, al termine della quale è impossibile non guardare il mondo con gli occhi di Napo, non solo cantante ma anche scrittore del duo. Una storia che stravolge totalmente i canoni convenzionali della comunicazione tra persone, gettando nuove luci, così come nuove ombre, sul mondo che siamo convinti di vedere ogni giorno.

Un album musicalmente pesante, cupo, talvolta monotono data la lunghezza delle tracce, che mette l’ascoltatore nelle condizioni di non potersi concentrare su nulla di diverso dal testo. A mio parere, un capolavoro. Ho cercato di trovare frasi brevi che mi piacessero particolarmente, in modo da poterle usare su qualche social, ma l’impresa si è rivelata fallimentare, dal momento che ogni frase che ascoltavo mi piaceva più della precedente.

I Uochi Toki, con il loro velato moralismo, la loro leggera antipatia, sono artisti che qualsiasi appassionato di musica indie dovrebbe ascoltare almeno una volta. Sono un duo che “o li ami o li odi”, come la base de Il ladro: frequenze alte e frequenze basse, senza vie di mezzo.

Diretti come pochi, originali come nessun altro.

The post Indie’s post #3: Uochi Toki appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
7367
Bon Iver – 22, A Million http://www.360giornaleluiss.it/bon-iver-22-a-million/ Sat, 15 Oct 2016 10:36:14 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7227 Dopo quasi dieci anni da For Emma, Forever ago e a cinque anni da Bon Iver, Bon Iver, Justin Vernon torna sulla scena internazionale con un nuovo album: 22, A Million. Una gestazione complessa che ha portato il fondatore e frontman dei Bon Iver ad allontanarsi dalla tranquillità del suo Wisconsin per intraprendere una ricerca musicale distante

The post Bon Iver – 22, A Million appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Dopo quasi dieci anni da For Emma, Forever ago e a cinque anni da Bon Iver, Bon Iver, Justin Vernon torna sulla scena internazionale con un nuovo album: 22, A Million. Una gestazione complessa che ha portato il fondatore e frontman dei Bon Iver ad allontanarsi dalla tranquillità del suo Wisconsin per intraprendere una ricerca musicale distante dal caldo suono della solita chitarra acustica. Un viaggio personale e stilistico che lo ha portato a confrontarsi con un genere al quale sarebbe riduttivo cercare di apporre un’etichetta: non è elettronica o rock, né folk o pop.

L’ascoltatore si trova inizialmente spaesato davanti a quello che può sembrare un connubio tra musica sperimentale e strumenti “tradizionali”, momenti vocali costruiti e contrapposti da poter sembrare onirici ma reali nella loro perfezione. L’esperienza cantautoriale diretta e sincera si fonde con un lavoro maniacale e artificioso di voci campionate, autotune e sintetizzatori che lasciano in sottofondo chitarre e tastiere; dove la testa e la razionalità del complesso lavoro artistico si mescolano con il cuore intimo dei testi poetici del suo autore. A partire dall’analisi della copertina in cui il Tao, unione di yin e yang, domina la scena: metafora delle due anime opposte che la band americana unisce in questo album, dalle perfette armonie acustiche a momenti in cui sembra che le tue cuffie stiano riproducendo male il brano che stai ascoltando.

BI22_tp0004c_Double_Gate_Cover3-PROD

Esiste un equilibrio tra le estreme contraddizioni musicali che quest’album produce?

Il paradosso viene eliminato e la sfida accettata: basta abbandonarsi alle atmosfere generate, dove la musica trascende la semplice esperienza di composizione e accompagnamento. 22, A Million è l’album dalla tracklist impronunciabile e dalla intimità delle strofe, del rumore e dei silenzi dirompenti. Ogni brano è una tappa del viaggio che “forse finirà presto” (come si dice in 22 (OVER S∞∞N)), ma che non si concluderà nonostante l’arrivo di giorni difficili nel nostro futuro “cause the days have no numbers, well it harms it harms me it harms, I’ll let it in” (dall’ultimo brano, 00000 Million).

Un ascolto indubbiamente non facile, che richiede un impegno costante da parte dell’ascoltatore, ma ripagato dalle sensazioni trasmesse da ogni singola vibrazione delle parole e della musica. Un regalo di Justin Vernon in vista della stagione autunnale, descritto in maniera eccellente dal suo amico Trever Hagen: “22 sta per Justin. La ricorrenza di questo numero nella sua vita è diventata una importante costante. Un miglio marcatore, un numero di maglia, il totale di un conto. La ripetizione di “2” indica la dualità di Justin: il rapporto che egli ha con sé stesso e il rapporto che ha con il resto del mondo. A Million è quel resto di mondo: le milioni di persone che non conosceremo mai, infinite e interminabili, ogni cosa al di fuori di sé stessi che ci rende quelli che siamo. Questo altro lato della dualità di Justin è ciò che lo completa e ciò che lui sta cercando. 22, A Million è in parte lettera d’amore, in parte l’ultima dimora di due decenni di ricerca di sé stessi”.

The post Bon Iver – 22, A Million appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
7227
Indie’s post #2: L’orso http://www.360giornaleluiss.it/indies-post-2-orso/ Sun, 09 Oct 2016 16:18:43 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7179 Proseguiamo questa settimana la rassegna degli artisti indie italiani presentando un gruppo che ha subito dal 2011 ad oggi una notevole evoluzione: L’orso. Ricordo quando per la prima volta ne sentii parlare, il gruppo era nato da poco e già il primo ep, L’adolescente, stava ottenendo un discreto successo, inserendo velocemente gli artisti nel panorama

The post Indie’s post #2: L’orso appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
Proseguiamo questa settimana la rassegna degli artisti indie italiani presentando un gruppo che ha subito dal 2011 ad oggi una notevole evoluzione: L’orso.
Ricordo quando per la prima volta ne sentii parlare, il gruppo era nato da poco e già il primo ep, L’adolescente, stava ottenendo un discreto successo, inserendo velocemente gli artisti nel panorama indie italiano, in quegli anni piuttosto spoglio. È proprio in questo primo lavoro del gruppo che infatti troviamo il pezzo più famoso, Ottobre come settembre, brano acustico caratterizzato da una piacevole freschezza nella sonorità, un basso presente e orientato sulle frequenze alte, e una voce di gola che a primo ascolto ho paragonato a quella di Neffa.
Ricordo tuttavia che non mi impressionò più di tanto: l’equalizzazione era non particolarmente elaborata, la freschezza del suono era dettata dal capo al quarto tasto della chitarra, e il testo era un incrocio tra il nonsense di Vasco Brondi e il romanticismo “di strada”, fatto di immagini realistiche, piccoli dettagli, momenti inutili e discussioni vuote, che trovano senso solo se inseriti in una storia d’amore. Nulla di particolarmente originale, se non fosse stato per quel basso. Ogni aspetto di quella canzone lasciava pensare che fosse stata composta per cavalcare l’onda del successo di un indie le cui regole erano già state dettate da Le luci della centrale elettrica: in fondo, era un pezzo suonato con la chitarra acustica, che parlava di un amore, e del cui testo non si capiva molto. In definitiva, il perfetto strumento per attirare le fan di Brondi.
Ma quel basso, o meglio, la scelta di quel basso, mi incuriosì non poco, così archiviai L’orso come un gruppo potenzialmente interessante che non aveva nulla da dire. Tuttavia ancora una volta, com’è successo per L’officina della camomilla, la Garrincha Dischi ha saputo fare miracoli. E stavolta ha investito sul gruppo giusto. Ho riscoperto la band uno o due anni fa, con il pezzo Io che ho capito tutto. Mi è sembrato strano che si trattasse degli stessi artisti che anni prima avevano composto Ottobre come settembre. Il pezzo non aveva nulla di acustico, il basso era distorto, la chitarra pesante, la tastiera presente, la voce molto meno dolce. Ma, ciò che più conta, il testo era chiaro, preciso, inequivocabile. E queste caratteristiche le ho potute rintracciare in moltissimi altri pezzi successivi ai primi ep. In un’intervista, il cantante del gruppo, Mattia Barro, dichiara infatti di aver voluto raccontare una storia, passando di traccia in traccia e di ep in ep: la storia di un’evoluzione, narrata attraverso descrizioni fortemente autobiografiche.
Alla luce di questa nuova ottica, guardando nel passato si riesce anche a dare un motivo alla poca chiarezza dei testi dell’esordio. L’orso è un gruppo camaleontico, che cambia col tempo, nel tempo. Sono stati capaci di entrare a piccoli passi ma senza troppe difficoltà in quello che Francesco De Leo (cantante e frontman de L’officina della camomilla) definisce “filone imposto” della musica indie, hanno ottenuto l’attenzione che cercavano, e solo in un secondo momento hanno lavorato sulla propria identità, scoprendosi a poco a poco, sporcando i suoni, e parlando liberamente, senza dover ricorrere a immagini brondiane. Decisamente un’astuta ed efficace strategia di mercato.
La loro sonorità, infatti, è ora difficilmente paragonabile a quella degli altri gruppi. La tastiera potrebbe leggermente rimandare a I Cani, ma sarebbe una forzatura eccessiva paragonare i due gruppi; la chitarra è molto effettata, ma mai fuori luogo, sembra quasi che sia il collante che permette agli altri strumenti di incastrarsi tra loro alla perfezione; la batteria svolge degnamente il suo ruolo, senza troppe pomposità ritmiche ma con un’ottima presenza sul tempo.
E poi c’è il basso. Impossibile non innamorarsi di quel basso, impossibile non ammirare come siano riusciti a gestire uno strumento spesso sottovalutato e relegato a puro accompagnamento ritmico. Tra i commenti su Youtube, mi sono spesso trovato a leggere sotto i video de L’orso le dichiarazioni di molti ascoltatori che nostalgicamente invitano il gruppo a tornare ai primi tempi, alla sonorità dei primi ep. Chiunque si ritenga un fan, dovrebbe avere ben capito che l’evoluzione non può essere fermata, né tantomeno invertita. Questi artisti ci stanno permettendo di assistere alla loro crescita, al loro cambiamento, al loro cammino che li porta canzone dopo canzone a raggiungere una sempre maggiore maturità e completezza. Noi non possiamo far altro che stare a guardare, e aspettarci di essere sorpresi ancora una volta.
Ma, fino a quel momento, un applauso non glielo nega nessuno.

The post Indie’s post #2: L’orso appeared first on 360°- il giornale con l'università intorno.

]]>
7179