Quello che Poletti non dice

"Meglio laurearsi con 97 a 21 anni piuttosto che con 110 a 28". Con questa frase, Poletti, ha suscitato molte polemiche. Ma il problema vero è ben altro

Poletti

Il ministro del lavoro Giuliano Poletti, nel suo intervento alla convention di apertura della venticinquesima edizione di “Job&Orienta” a Verona, è tornato a suscitare molte polemiche. La sua colpa è quella di aver sostenuto che laurearsi col massimo dei voti a 28 anni è inutile rispetto ad una laurea a 21 anni con una votazione inferiore (97 nel suo esempio). Premesso che io ho una visione particolare nel merito di questa affermazione, non è di questo che voglio scrivere.

Quello che sostiene Poletti, giusto o sbagliato che sia, si basa su un dato di fatto visibile a tutti: il mercato del lavoro, sul piano globale, chiede maggiore specializzazione ai giovani, ma soprattutto che questa venga acquisita molto velocemente.

Il punto che non viene però sottolineato è un altro e ben più importante: in Italia, con la laurea ci si fa ben poco. A sostegno di questa tesi, porto il rapporto OCSE Education at a Glance 2015.  Il rapporto sopracitato mette in luce alcuni problemi strutturali del mercato del lavoro italiano:

  • La disoccupazione dei laureati italiani è mediamente 20-25 punti superiore rispetto a quella dei colleghi francesi e tedeschi (è bene sottolineare che ciò non dipende dalla congiuntura negativa di questi anni, dal momento che il differenziale tra questi dati è aumentato fin dal 2000)
  • Un laureato italiano guadagna solo il 43% in più rispetto ad un diplomato (per capire la differenza, basti sapere che, in Brasile, un laureato guadagna il 160% in più rispetto ad un diplomato)
  • All’interno della fascia 25-64 anni, in Italia, solo il 17% è titolare di un diploma universitario

Questi tre dati devono, a mio avviso, far riflettere. Innanzitutto devono far capire due cose: la disoccupazione dei laureati non dipende da un’eccesso di offerta di manodopera specializzata, dal momento che solo un lavoratore su cinque ha una laurea (per lavoratore intendo i partecipanti alla forza lavoro occupati e disoccupati), ma da un enorme deficit di domanda; inoltre, la laurea non è considerata un valore aggiunto considerevole da parte dei datori di lavoro.

In poche parole, in Italia, le imprese non puntano sull’innovazione, bensì sull’esperienza e, quando si verifica il contrario, questa evidentemente non viene considerata remunerativa come in altri paesi più o meno sviluppati.

Queste sono considerazioni da cui il governo dovrebbe trarre spunto, perchè è evidente che il mercato italiano non è in grado, allo stato attuale, di assorbire, la pur bassa mole di offerta di manodopera specializzata made in Italy.

Il Governo dovrebbe incentivare (e in parte lo sta già facendo), con un’adeguata politica fiscale, le imprese innovative e l’autoimprenditorialità dei giovani laureati. Inoltre dovrebbe impegnarsi, sul piano comunitario, per una maggiore mobilità dei lavoratori europei all’interno dell’UE, cosa che ad oggi manca e che è uno dei problemi strutturali europei più gravi, in funzione della volontà di creare un’Europa unita