elezioni – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Sun, 18 Feb 2018 20:38:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png elezioni – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 “Prima viene il paese, poi il Partito” http://www.360giornaleluiss.it/prima-viene-il-paese-poi-il-partito/ Tue, 30 Jan 2018 13:25:02 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=9158 Con questa frase di Willy Brandt, si potrebbe riassumere la complicata stagione post-elettorale in Germania, paese che da ormai quattro mesi non ha un governo. Finalmente, infatti, sembra si sia trovato il tanto atteso accordo fra Spd (socialisti guidati da Schulz) e Cdu, il partito di Angela Merkel che da ormai quattro legislature comanda incontrastata.

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Con questa frase di Willy Brandt, si potrebbe riassumere la complicata stagione post-elettorale in Germania, paese che da ormai quattro mesi non ha un governo.

Finalmente, infatti, sembra si sia trovato il tanto atteso accordo fra Spd (socialisti guidati da Schulz) e Cdu, il partito di Angela Merkel che da ormai quattro legislature comanda incontrastata. Finora. Quando, a fine settembre (prima delle elezioni), il leader dei socialisti aveva affermato di non voler più riformare la “grande coalizione”, ma desiderava piuttosto porsi all’opposizione, si profilava sullo sfondo di questo scenario da un lato instabilità politica, dall’altro l’avanzata di partiti di estrema destra o populisti.

Arrivano i risultati: il CDU un deludente 32%, poi SPD con il 20%. Subito dopo, la sorpresa è AFD (estrema destra), partito di chiara matrice nazionalista, euroscettico, guidato dal populista Bernd Lucke, che raggiunge il 12%. Risultato storico se pensiamo che quattro anni prima non avevano raggiunto nemmeno il 5%. Segue FDP (liberalisti), il partito di destra guidato da Christian Linder con il 10%. Tra i grandi chiude la sinistra radicale di LINKE (9%) e i Verdi (8%).

Dunque la situazione è chiara: due partiti di destra, uno moderato, l’altro estremo, sembrano influenzare non poco il futuro della Germania, sulle note di un populismo che già si è sentito in Francia, Inghilterra e Olanda, con esiti diversi

Segue, così, un complicato periodo di trattazioni e consultazioni che portano, nel giro di qualche mese, a un ripensamento di Schulz e alla conseguente frattura nei socialisti. Questo crede che per prima cosa venga la governabilità del paese tramite una forte maggioranza nel Bundestag, poi l’ideologia dei singoli partiti. A questo riaccostamento dei socialisti – o meglio di un’ala di questi – al partito vincitore delle elezioni, è seguito un rinegoziamento dei punti del programma, con particolare riguardo a sanità, lavoro precario e ricongiungimento dei profughi con i loro familiari. La votazione per decidere se coalizzarsi con il CDU ha, per fortuna del paese, avuto esito positivo (362 si e 280 no) e di conseguenza il partito si è salvato da una crisi senza precedenti. Come il suo leader, che ha emozionato l’aula con un discorso seguito da un minuto di applausi.

Ora la trattativa per preparare una nuova grande coalizione è realtà. Sono stati avviati i colloqui e la Merkel è costretta ad ampie concessioni o si dovrebbe tornare alle urne, evento, questo, che avrebbe del clamoroso.

Jean-Claude Junker ha affermato che la coalizione è un’ottima notizia sia per la Germania che per l’Europa intera, specie in questo momento nel quale solo questo paese può prendere le redini del vecchio continente. E per farlo serve una grande coalizione.

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Il populismo è pericoloso…? http://www.360giornaleluiss.it/il-populismo-e-pericoloso/ Sat, 06 May 2017 15:09:50 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8617 Uno spettro si aggira per l’Europa: quello del populismo. Non serve echeggiare Carlo Marx per avere un’idea di quel che sta accadendo nel mondo: spettro o no, il vento del cosiddetto “populismo” ha ormai spazzato le lande dell’Occidente globalizzato e capitalista in lungo e in largo, scuotendo le persiane e svegliando, col suo ululato echeggiante

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Uno spettro si aggira per l’Europa: quello del populismo.
Non serve echeggiare Carlo Marx per avere un’idea di quel che sta accadendo nel mondo: spettro o no, il vento del cosiddetto “populismo” ha ormai spazzato le lande dell’Occidente globalizzato e capitalista in lungo e in largo, scuotendo le persiane e svegliando, col suo ululato echeggiante nel cuore della notte, molti di quelli che dormivano beati al tepore dei loro comodi letti. Populismo di destra, di sinistra, di centro, rosso, nero, xenofobo, demagogo, sociale, euroscettico, in tutte le salse: “populismo” è un termine ormai a tal punto usato, o meglio abusato che, a furia di voler coprire troppo, vede allargare a dismisura le sue maglie fino a consumarsi, sfilacciarsi, strapparsi e quindi non coprire proprio più niente.
“Populismo” è tutto e niente. Tutto: tutto quello che non rientra nel contenitore del pensiero mainstream; niente: niente che valga la pena considerare e sforzarsi di comprendere, in quanto irrimediabilmente ed inesorabilmente marchiato dallo stigma del politicamente scorretto.

Domani, 7 maggio 2017, si gioca la partita più importante, per il cosiddetto “populismo”, dai fasti della Brexit e di Donald Trump. Questa volta in ballo c’è l’Eliseo e, allungando lo sguardo oltre di esso, non è difficile arrivare a Bruxelles e scorgere la sagoma di un edificio ben più grande, che vede pericolosamente oscillare le sue fondamenta.
Il pericolo è lì, che parla dall’alto dei suoi podi a piazze furibonde e infervorate: esso risponde al nome di Marine Le Pen.
Il film sembra avere un copione lineare: buoni contro cattivi, pericolosi sovversivi dell’ordine faticosamente costituito conto chi quell’ordine si erge a difenderlo.
Ma siamo poi così sicuri? Forse una situazione così delicata merita invero un’analisi più attenta e approfondita. Siamo così sicuri, cioè, che quello che oggi additiamo come pericolo sia da evitare ad ogni costo? Mi spiego meglio: possiamo veramente affermare che l’alternativa al presunto pericolo non sia più pericolosa del pericolo stesso?
Probabilmente (ma le probabilità negli ultimi tempi son state alquanto capricciose), Emmanuel Macron sarà il prossimo Presidente della Repubblica Francese: e poi? Si andrà avanti sullo stesso identico percorso di Sarkozy e Hollande, ma che è lo stesso di Gentiloni, Renzi e dei loro predecessori; un percorso lastricato di erosione dei diritti sindacali, tagli alla spesa pubblica, rispetto ostinato di parametri inventati o sbagliati, totale incapacità di gestire il fenomeno immigratorio. E poi? Nel mentre, il malcontento diffuso che c’è e che continuerà necessariamente ad esserci continuerà a fermentare, ad esasperarsi, ad inasprirsi.
Macron sarà un ferro che andrà a infierire su una ferita già aperta e viva, approfondendola. Sarà allora la Le Pen il punto di sutura di cui la ferita necessita per chiudersi? Chi scrive non lo crede; tuttavia, la Le Pen potrebbe essere verosimilmente il disinfettante che, gettato sulla ferita, la farà spurgare e le consentirà di espellere l’infezione, prima che arrivi ai gangli vitali dell’organismo europeo. La Le Pen può dare, a quel malcontento montante, una valvola di sfogo di cui la Francia e l’Europa necessitano. Come una teiera il cui coperchio balla freneticamente, sospinto dall’acqua incandescente che bolle a temperature estreme al suo interno, il turbamento ampio, diffuso e profondo nella società europea ha bisogno di un foro per eiettare il vapore bollente, prima che le sue naturali conseguenze divengano irreversibili per i popoli del nostro continente. La veemente folata che se ne originerebbe travolgerà, seccando e divellendo, i deboli arbusti del vivaio maastrichtiano-lisbonese? Certamente. Ma veramente abbiamo il coraggio di dire che l’Unione Europea non se lo sarebbe meritato? Essa promuove un modello economico neoliberista, che sostiene la necessità di agevolare i meccanismi concorrenziali del mercato al fine di consentire l’eliminazione da esso dei soggetti inefficienti; non sarebbe allora ipocrita non applicare questa stessa regola di efficienza alla sua più grande promotrice, questa sì manifestamente inefficiente, se l’efficienza dei progetti politici si misura sulla felicità dei popoli che abbracciano?
Cada l’Unione Europea, se ciò è necessario affinché l’Europa continui a vivere, senza morire invece intossicata dalle tossine prodotte dalla macerazione di uno scontento già troppo a lungo istigato; il Vecchio Continente è sopravvissuto a due Guerre Mondiali, e sopravvivrà indubbiamente anche allo stralcio dei Trattati Europei.

L’incattivirsi di un malcontento inespresso e ingabbiato ha un potenziale distruttivo ben più alto di quello del cosiddetto “populismo” (che poi, come detto in apertura, è una categoria che si colloca tra il tutto ed il niente).
Per concludere la riflessione, l’invito è quello di rivolgere il pensiero ad un caso emblematico: la Grecia; cosa c’è dopo Tsipras? Cosa viene dopo la reiterata frustrazione ed umiliazione della volontà popolare?
Quando le folle non andranno più ai seggi a votare i populisti, ma entreranno direttamente nei parlamenti a suon di spranghe e bastoni, forse solo allora ci renderemo conto che con molti cosiddetti “pericoli”, in fin dei conti, sarebbe stato meglio sbatterci il muso contro.

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Quattro cose che ci hanno insegnato le primarie del Partito Repubblicano http://www.360giornaleluiss.it/quattro-cose-che-ci-hanno-insegnato-le-primarie-del-partito-repubblicano/ Sun, 08 May 2016 13:57:05 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6573 « Ci sono più probabilità che Trump faccia un altro cameo in “Mamma ho perso l’aereo” o giochi le finali NBA, piuttosto che vincere le primarie del partito Repubblicano » affermava Harry Enten nel giugno dello scorso anno. Enten è un giornalista politico e analista per FiveThirtyEight, il giornale online fondato dallo statistico Nate Silver.

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« Ci sono più probabilità che Trump faccia un altro cameo in “Mamma ho perso l’aereo” o giochi le finali NBA, piuttosto che vincere le primarie del partito Repubblicano » affermava Harry Enten nel giugno dello scorso anno. Enten è un giornalista politico e analista per FiveThirtyEight, il giornale online fondato dallo statistico Nate Silver. Le primarie sono andate molto diversamente da come Enten si aspettava, e per questo motivo ha messo in fila quattro cose che si possono imparare dalla vittoria di Donald Trump alle primarie del Partito Repubblicano.

 

Non si può dire “non è mai successo nella storia” quando c’è “poca” storia.

Nessuno dei due partiti aveva, storicamente, mai nominato uno come Trump: hanno sempre scelto qualcuno che fosse “affidabile”, ma soprattutto “eleggibile”. Trump sembrava (sembra?) non rientrasse in nessuna di queste due categorie.

 

La Commissione McGovern-Fraser era stata creata a seguito delle convulse primarie del Partito democratico del 1968: stabilì delle linee guida per le primarie, rendendole più simili a come si svolgono oggi. Il Partito Repubblicano si adeguò qualche anno dopo e le prime primarie a svolgersi con queste regole furono quelle del 1972. Dal 1972, i partiti non hanno mai scelto un candidato che non fosse né un politico né un veterano di guerra.

 

La nomina di Trump sembra quindi qualcosa di assurdo e inaspettato, perché “non è mai successo nella storia”. Il punto è che le elezioni negli Stati Uniti sono troppe poche per poterle considerare un dataset statisticamente rilevante. Il 22esimo emendamento, introdotto nel 1947, impone un limite di due mandati al Presidente: è successo solo 14 volte che ci fosse un Presidente non ricandidabile, come quest’anno.

 

Bisogna fare attenzione alle sfumature dei sondaggi.

I dati mostravano chiaramente che Trump non aveva il sostegno del Partito Repubblicano. Eppure era avanti nella maggior parte dei sondaggi.

 

I primi sondaggi, anche quelli fatti un mese prima di un’elezione primaria, non sono mai stati particolarmente predittivi: molti elettori non sanno chi votare fino al giorno delle elezioni. In quei casi, inoltre, assume un peso rilevante quanto il nome del candidato è conosciuto, e questo aiutava Trump.

 

Per questi motivi, quei sondaggi non sono stati presi in considerazione. Ma Trump si è sempre mantenuto in vantaggio, addirittura aumentando la propria percentuale all’inizio del 2016, sia a livello nazionale che locale.

 

Enten ritiene che sia stato un errore a quel punto non comprendere quello che stava succedendo e sottovalutarlo.

 

Non è così difficile migliorare gli indici di gradimento.

Trump ha sempre avuto indici di gradimento molto bassi, ma se inizialmente, nel giugno del 2015, un sondaggio della Monmouth University aveva registrato un indice di gradimento netto pari a -35, già un mese dopo era riuscito a raggiungere un punteggio pari a +17. Il suo punto di forza, a differenza degli altri candidati repubblicani, è un nutrito gruppo di sostenitori che lo vedeva e continua a vederlo “molto favorevolmente”. Questo blocco è rimasto costante nel tempo, anche quando il suo indice di gradimento crollava all’inizio del mese di aprile.

 

Non credere che i partiti sappiano cosa stanno facendo.

Trump non ha mai avuto il sostegno del partito Repubblicano, com’è evidente da questa grafica di FiveThirtyEight che riassume gli endorsement ricevuti finora. È il primo candidato dal 1980 a ottenere la nomination pur avendo meno endorsement di altri candidati. E allora perché il partito non è riuscito a fermarlo?
Il problema è stata la mancanza di coordinamento. Anche quando sembrava ci fosse una convergenza su Rubio, molti funzionari del partito sono rimasti ai margini senza avere il coraggio di prendere posizione. La cosa è poi stata ancora più evidente quando sono rimasti in corsa, oltre Trump, solo Ted Cruz e John Kasich.

 

Anche Trump ha dei meriti in tutto questo, sebbene non sia uno stratega e non avesse pianificato tutto. Ma è riuscito a ottenere una grandissima copertura mediatica gratuita (in maniera simile a ciò che Grillo era riuscito a fare alle elezioni politiche italiane del 2013). Ha sfidato l’establishment repubblicano e ha vinto. È presto per sapere se rappresenta un’eccezionalità o il futuro della politica degli Stati Uniti, ma tra non troppo tempo lo scopriremo.

 

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Roma verso le elezioni http://www.360giornaleluiss.it/roma-verso-le-elezioni-la-collezione-primaverile-dei-candidati-al-ruolo-sindaco-della-capitale/ Fri, 08 Apr 2016 14:12:44 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5762 Per questa primavera, Roma indossa manifesti. I colori sono più o meno sempre gli stessi, davvero poche le novità stagionali nella corsa al primo scranno sulla passerella delle comunali capitoline. In effetti nella rosa dei candidati avremmo potuto trovare volti nuovi davvero, nuovi che poco o nulla si sa di loro, nuovi che almeno su

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Per questa primavera, Roma indossa manifesti.
I colori sono più o meno sempre gli stessi, davvero poche le novità stagionali nella corsa al primo scranno sulla passerella delle comunali capitoline.
In effetti nella rosa dei candidati avremmo potuto trovare volti nuovi davvero, nuovi che poco o nulla si sa di loro, nuovi che almeno su questo ogni partito poteva scegliere di spiazzare piacevolmente l’elettorato, scansando dalle prime file vecchie guardie e veterani.
E invece no. Si è optato per le grandi firme.

Giorgia Meloni in stile pre-natal.

Il papabile Sindaco mamma tutta ordine e lavoro, un concentrato di grinta femminile e materna insicurezza, che prima si taglia fuori dalla corsa annunciando la gravidanza, poi ci ripensa e scende in campo col pancione.

Quelli per Giorgia Meloni saranno i voti della ragionevole tolleranza e della disillusione.

Una mamma di destra che raccoglierà le speranze dei romani stanchi dell’abusivismo e della clandestinità, delle anime perse che vivono ai margini sociali un po’ alle spalle di tutti, della piccola criminalità, e infine della lobby di poteri forti di cui sarebbe figlio l’attuale governo targato Pd, e che l’amministrazione Marino avrebbe più o meno consapevolemente favorito, occultato o comunque non visto.

Ma sulle macerie provocate dalle inchieste e dagli scandali che hanno coinvolto Campidoglio e municipalizzate locali, da Alemanno a Marino negli ultimi anni, è facile marciare sventolando la bandiera An-FdI, e lo può fare anche una donna incinta.
La sua campagna elettorale verrà aperta il 21 Aprile al Pincio, ma intanto alla provocazione di Grillo di darsi fuoco se il M5s non conquisterà Roma, mamma Meloni risponde con un tweet rasserenante, con tanto di foto che la ritrae con un estintore in mano.

E poi c’è il Vintage tres-chic. Che comunque ha sempre dietro una grande firma.

Guido Bertolaso.

E’ il pezzo forte della collezione targata Silvio Berlusconi, già corteggiato, e nemmeno troppo segretamente, da mamma Meloni.

Lei si è resa disponibile a raccoglierne i voti a fronte di un possibile ballottaggio, quando per affrontare la giovane candidata grillina, Virginia Raggi, potrebbero non bastare maturità politica e grintosa maternità.

Forse per questo Silvio Berlusconi indossa spesso gli occhiali da sole quando, solidamente mummificato, parla a slogan per fare da promoter al suo prodotto. Non è vergogna la sua.

Del resto il suo candidato, dopo quasi dieci anni di Protezione Civile e qualche altro di volontariato in Africa tenuto a distanze siderali dalla politica italiana, si è dichiarato quasi subito pronto a svolgere il ruolo di nuovo sindaco-sceriffo, a combattere per l’ordine e la trasparenza nella capitale, per la sicurezza nelle strade, per la regolarità negli appalti.
Bertolaso ha affrontato situazioni di emergenza assoluta: incendi, frane ed alluvioni, terremoti e tsunami nel sud est asiatico, rischi e folle di pellegrini che da tutto il mondo si concentravano nella capitale in occasione dei funerali di papa Giovanni Paolo II.

Ma sulla sua persona si sono poi riversate con curiosa ironia, valanghe di critiche politiche, incidenti diplomatici e scandali giudiziari.
Le sue insofferenze verso la gestione dei soccorsi statunitensi inviati per l’emergenza ad Haiti ad esempio, non piacquero allora nè ad Hillary Clinton nè a Silvio Berlusconi, mentre le intercettazioni e le carte sul G8 alla Maddalena e quelle afferenti al processo di ricostruzione aquilano, non piacciono tutt’ora alla Procura di Perugia.

I suoi processi ancora in corso rimangono tuttavia nell’ombra, oscurati dalla decennale protezione sodale di Silvio Berlusconi, ma anche dalle sue personali e costanti smentite che permettono ad oggi al modello vintage Guido Bertolaso di sfilare in passerella politica con spavalda e sfacciata sicurezza.

Questa primavera è d’altro canto anche la stagione delle new entry.

Per un alternative giovane e posato, manovrato a dovere dalla casa di produzione a 5 Stelle, la firma commerciale Casaleggio and co, propone Virginia Raggi.

In realtà dalla regia le hanno solo consigliato, per sua stessa ammissione, di rimanere se stessa in passerella.
Un inno alla semplicità che l’eterea Virginia ha deciso di onorare scegliendo per la sua squadra di governo, solo tecnici e professionisti di settore, tra ingegneri e docenti universitari.

Ma una campagna elettorale targata M5s non può ridursi al viso d’angelo di Virginia Raggi e all’impalpabile pacatezza delle suoi buoni propositi.

Così ci pensa Grillo ad infiammare i toni della marcia su Roma, sfruttando chiaramente il suo amato web.
Infiammare si fa per dire, visto che la promotion si basa sui soliti slogan, intrisi di populismo e demagogia, e se vogliamo buoni per vendere un po’ qualsiasi cosa: basta partiti, stop alla corruzione e ai favoritismi, niente destra o sinistra, solo trasparenza e meritocrazia nella gestione di Roma. Pulire la capitale.

Il M5s è un po tutto quello che casalinghe ed idraulici al governo, vorrebbero da un detersivo: efficenza a basso costo e garanzia di risultato.
Solo che il pavimento di Roma è da decenni intriso di macchie ed aloni in espansione, piccoli e grandi centri di potere che forse il nuovo super sgrassatore Raggi non è adatto a debellare in soli 5 anni di governo.

Ma la sfilata per le prossime comunali si arricchisce anche di uno stile più accattivante, mondano, imprenditoriale.

Alfio Marchini.

Il suo nome è quello che più si addice ad una casa di moda, il suo volto sembra studiato per restare affisso ad un cartellone pubblicitario, a fare da protagonista in una serie tv.
I suoi hashtag #AmoRoma e #RomaTiAmo sono già ben noti anche ai frequentatori più saltuari dei social network.

Alfio Marchini ama Roma, ama l’imprenditoria e i giovani, l’iniziativa economica privata, ama l’ideologia comunista ma, ci tiene a precisarlo, non ha mai votato per il Pci; ama il polo e la sua famiglia.
Figlio di costruttori della Roma bene, laureatosi in ingegneria, è stato prima amministratore delegato di una società del gruppo Ferrovie dello Stato, poi membro del consiglio di amministrazione di Banca di Roma e Capitalia, e pur sedendo oggi nel c.d.a. di Cementir, risulta tra le altre cose impegnato anche nel sociale: dalla fondazione di una associazione di mediazione per la pace in medioriente a socio fondatore della associazione Italiana per la qualità delle politiche pubbliche, ente presieduto da Luciano Violante e di cui presidente onorario è niente poco di meno che Carlo Azeglio Ciampi.

Qualora non bastasse questo a ritrarre il profilo del bravo ragazzo figlio di papà, Alfio Marchini è anche membro di una Fondazione che si propone di analizzare e studiare le politiche europee e che ha avuto come presidente politici del calibro di Giuliano Amato e Massimo D’Alema.

Insomma Alfio Marchini ama un bel po di cose ed ha anche amicizie potenti.

Ma Roma forse non è pronta ad un sindaco simile.

Nel suo programma elettorale entreranno con ottime probabilità parole chiave come mobilità alternativa, energie ecosostenibili, trasparenza amministrativa ed occupazionale, project financing per risanare le casse comunali, centri sportivi e culturali in ogni municipio della capitale.

Dopo il fallimento delle mancate primarie nel Pd, Alfio Marchini aveva deciso di correre da solo alle elezioni amministrative del 2013, salvo poi riuscire a sedere in Campidoglio solo come consigliere comunale ed assistere con oscillante opposizione alla inarrestabile caduta di Ignazio Marino.
Una moderna quanto ambigua novità.

Infine, a grande richiesta il modello targato Pd.

Dopo la drammatica e passionale caduta di Ignazio Marino, sedotto prima ed abbandonato poi dai fedelissimi di Matteo Renzi, il Partito Democratico decide di darsi una ripulita e con regolari primarie propone in passerella un moderno alternative.

Roberto Giacchetti.

La soluzione Giacchetti piace alla sinistra moderata di oggi, ma anche a quella rivoluzionaria e progressista di una volta.

Il deputato Pd, balzato agli onori delle cronache una decina di anni fa per aver dichiarato ad una nota testata nazionale di fare uso saltuario di cannabis (solo in occasioni speciali), vanta una carriera politica da militante nei movimenti studenteschi e nel Partito Radicale, e nella prossima corsa elettorale ha sin da subito ottenuto il beneplacito del governatore regionale Nicola Zingaretti.
La sua prima esperienza in Campidoglio risale alla fine degli anni 90 come capo della segreteria e capo di gabinetto durante l’amministrazione Rutelli.
Dall’Ulivo alla Margherita, passando per le droghe leggere, la sua passione per le piante e l’ecologia è nota in prima persona a chi ha assistito qualche anno fa alla sua adesione circoscrizionale nei Verdi.

Insomma Roberto Giacchetti è un modello più di sinistra che targato Pd e sembra confezionato appositamente per proporre ai romani una sinistra dalla ideologia credibile più che un sindaco capace.

Con questi modelli, Roma si presenta alla sfilata delle prossime elezioni comunali.
Una collezione variegata e intrigante in ogni suo elemento.

Chi la vestirà sarà indubbiamente chiamato ad affrontare però tutte le tematiche che corolleranno i manifesti elettorali dei candidati a sindaco. Tutte insieme.

E tu chi voteresti a sindaco di Roma?

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La vittoria assoluta dei riformisti iraniani http://www.360giornaleluiss.it/la-vittoria-assoluta-dei-riformisti-iraniani/ Wed, 02 Mar 2016 21:24:18 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5877 In alcuni casi la democrazia è forse sopravvalutata, in altri si rivela, come diceva Winston Churchill, il peggiore dei sistemi politici escludendo tutti gli altri, in altri ancora la chiave e la scintilla di ogni svolta politica e sociale. Il 26 febbraio si sono svolte in Iran le elezioni per rinnovare i membri del parlamento

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In alcuni casi la democrazia è forse sopravvalutata, in altri si rivela, come diceva Winston Churchill, il peggiore dei sistemi politici escludendo tutti gli altri, in altri ancora la chiave e la scintilla di ogni svolta politica e sociale.

Il 26 febbraio si sono svolte in Iran le elezioni per rinnovare i membri del parlamento e l’assemblea degli esperti. Come molti pensavano, come altri auspicavano, schiacciante è stata la vittoria dei riformisti e salda la continuità con la linea del presidente Hassan Rouhani. Di certo un risultato che rafforza notevolmente la posizione dell’Iran in un contesto non solo tradizionalmente caldissimo, ma geopoliticamente mai nevralgico come ora, tra la crisi siriana e il terrorismo internazionale sunnita diffuso dallo Stato Islamico.

Questo sarà il decimo parlamento dalla rivoluzione iraniana di Khomeini del 1979 e il 35esimo dalla riforma costituzionale.
Sui 290 seggi assegnati i membri del parlamento eserciteranno le loro funzioni dal 3 maggio prossimo fino al 2020 per una durata di circa quattro anni. Nella ex Persia questa istituzione viene chiamata popolarmente Majlis e, come in tantissimi altri Paesi, svolge principalmente la funzione legislativa.
L’assemblea degli esperti invece, costituita da 88 membri, risulta decisiva ogni volta che deve essere scelto il leader supremo, come è avvenuto per l’attuale Khamenei , per esempio.
Ciò che conta, e senza dubbio la sostanziale news che emerge da queste elezioni, è invece il peso specifico ricoperto degli elettori iraniani: i giovani e le donne in cerca di rinnovamento hanno fatto la differenza, regalando una grande vittoria ai riformisti.

Basti pensare che solo il 9,4% dei candidati era costituito da donne, mentre lo scopo principale degli osservatori era valutare attraverso i dati elettorali la popolarità di Rouhani, il presidente riformista che ha promesso di porre fine a tutte le sanzioni che gravano sul Paese per l’arricchimento dell’uranio e il dibattito nucleare sorto con la precedente presidenza, quella di Mahmoud Ahmadinejad.

Così la vittoria di Rouhani è stata grande, e non solo perché attestata dalle percentuali di consenso conquistate, il 28,62% che ha assegnato 83 seggi per una pluralità partitica riformista, ma perché tali numeri sono stati legittimati da oltre 50 milioni di elettori in una popolazione totale di circa 70, un livello di partecipazione ormai irraggiungibile in quasi tutti i Paesi occidentali.

Crescita dell’economia e sviluppo sostenibile dando potere ai giovani e alle donne“, questo il motto dei riformisti a cui l’elettorato ha voluto dare fiducia proprio nello slancio di un nuovo rinnovamento, sebbene in tanti aspetti l’Iran sia ancora malvisto, soprattutto in tema di giustizia: la pena capitale è ancora vigente.
Il margine di miglioramento e cambiamento è quindi enorme, ma il Paese sembra pronto a seguire questa nuova strada, ora maggiormente accolta anche nell’ambito internazionale, all’interno del quale l’Iran è ormai una pedina fondamentale a cui poter e dover dare fiducia in tutto il Medio Oriente.
Sono molto ottimista dal punto di vista politico per il futuro del mio Paese – ha affermato per sintetizzare i risultati conseguiti il deputato riformista di nuova generazione Alireza Rahimi – Il cambiamento può essere un simbolo in sé, quando molti giovani sono ancora incarcerati per le proteste del 2009, quando sulla credibilità dell’Iran pesano ancora le accuse di brogli per la riconferma di Ahmadinejad. Abbiamo aperto il varco, l’elettorato ci sta dando fiducia indicandoci il futuro e gli obiettivi da perseguire.

Se dunque le nuove iniziative dell’attuale presidente iraniano, soprattutto in politica estera, sono riconfermate dai cittadini speranzosi pronti a far valere il voto delle nuove generazioni, non c’è altro modo che ripagare le loro scelte, magari colmando finalmente quel pregiudizio storico che dal 1979 pesa sulla credibilità nazionale dell’Iran agli occhi del pubblico internazionale.

twitta@LolloNicolao

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PRESIDENZIALI AMERICANE 2016: PRIMARIE, CAUCUS ED ELEZIONI http://www.360giornaleluiss.it/presidenziali-americane-2016-primarie-caucus-ed-elezioni/ Fri, 26 Feb 2016 18:26:27 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5831 Le elezioni presidenziali americane si basano su un doppio meccanismo di selezione: le votazioni generali nazionali si tengono ogni quattro anni a novembre ma, nel corso dei mesi precedenti, si tengono le primarie dei due partiti. Questa fase preliminare consiste in mini-elezioni statali che sono però caratterizzate da alcune complessità e stranezze che possono confondere

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Le elezioni presidenziali americane si basano su un doppio meccanismo di selezione: le votazioni generali nazionali si tengono ogni quattro anni a novembre ma, nel corso dei mesi precedenti, si tengono le primarie dei due partiti.

Questa fase preliminare consiste in mini-elezioni statali che sono però caratterizzate da alcune complessità e stranezze che possono confondere un osservatore esterno.

LE PRIMARIE

Esistono due formati per questo tipo di consultazioni: le primarie vere e proprie e i caucuses.

Le primarie sono normali elezioni in cui gli iscritti ad un partito si recano alle urne per scegliere il loro rappresentante preferito.

Anche nel caucus gli iscritti ai due partiti principali sono chiamati a scegliere tra i candidati, ma lo fanno in un contesto che definirei “pittoresco”. Gli elettori infatti, si radunano in grandi luoghi pubblici e dichiarano espressamente la loro preferenza per uno dei candidati spesso dividendosi fisicamente in gruppi separati. In una situazione del genere quindi, può accadere che membri della stessa famiglia si ritrovino in gruppi differenti a sostenere candidati diversi e, cosa interessante, con la possibilità di cambiare idea e passare da un gruppo all’altro. Ogni gruppo quindi prova ad attirare individui degli altri gruppi. Alla fine di questo peculiare processo, si procede ad un conteggio dei sostenitori di ciascun candidato.

Un’altra peculiarità delle primarie americane consiste nel fatto che questo processo elettorale non avviene in contemporanea in tutti i singoli stati ma è distribuito lungo un periodo di circa cinque mesi. Si viene perciò a creare una situazione in cui i primi stati a pronunciarsi (Iowa e New Hampshire) tendono ad influenzare in maniera sproporzionata la percezione di gradimento e condizionano i risultati successivi. Nel tentativo di controbilanciare l’influenza di questi primi ballottaggi, un gruppo di stati ha deciso di sincronizzare la data delle loro primarie nel fatidico Super Tuesday: il “Super-martedi”, che quest’anno cadrà il primo Marzo, durante il quale ben dodici stati si pronunciano sui candidati ancora in corsa solidificandone così le posizioni.

Tutti i voti provenienti dalle urne o conteggiati nei caucuses non vanno direttamente ai candidati ma ai delegati, un gruppo di intermediari costituito da responsabili locali dei due partiti i quali, alla fine della stagione delle primarie, si riuniscono nella Convention nazionale del rispettivo partito per nominare ufficialmente, il candidato prescelto.

Ma le sorprese non sono finite perché, in aggiunta ai delegati designati con questo complesso procedimento, esiste un altro gruppo di elettori le cui decisioni di voto sono completamente indipendenti: i superdelegati. Questi ultimi sono le più alte cariche dei partiti dei singoli stati e costituiscono circa il trenta per cento dei 2383 delegati incaricati di decidere la nomina alla convention. E’ chiaro che, con un tale potere decisionale a loro disposizione, hanno un’influenza considerevole nel far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Ecco perché, sebbene finora, in campo democratico, la situazione tra Hillary Clinton e Bernie Sanders sia di relativo equilibrio, la ex First Lady dispone di un sostanzioso vantaggio sul senatore del Vermont in termini di delegati proprio grazie all’appoggio di questi grandi elettori.

ALTRE CANDIDATURE

La legge elettorale prevede la possibilità per altri candidati di formare una propria lista raccogliendo un numero sufficiente di firme a loro sostegno. Tuttavia, nel corso dell’intera storia degli Stati Uniti, non è mai avvenuto che un candidato presidenziale indipendente sia riuscito ad essere eletto secondo questa procedura. Proprio in queste presidenziali però, si vocifera che, se la sfida finale dovesse essere tra Trump e Sanders, un candidato indipendente del calibro di Bloomberg potrebbe riuscire nell’impresa.

Un ultimo sistema per potersi presentare alle elezioni presidenziali consiste nel fare iscrivere il proprio nome nella lista al momento del voto elettorale. Ad oggi nessun candidato write-in ha mai vinto un’elezione presidenziale negli Stati Uniti.

LE ELEZIONI

Le modalità di elezione del presidente sono fissate dalla Sezione I dell’Articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti, modificato secondo gli Emendamenti XII, XXII e XXIII. Presidente e vicepresidente appartengono alla medesima lista e vengono eletti dal Collegio Elettorale statunitense, i cui membri a loro volta sono eletti direttamente da ciascuno Stato dell’Unione. I cittadini perciò non votano direttamente per il presidente, ma per i cosiddetti “grandi elettori“, che a loro volta saranno chiamati a votare per il nuovo inquilino della Casa Bianca. Si tratta di un voto Stato per Stato, che riflette la struttura federale del Paese. Il sistema è maggioritario in tutti gli Stati tranne che in Maine e Nebraska: ciò significa che, anche per pochi voti di differenza, un candidato può aggiudicarsi tutti i grandi elettori di uno Stato secondo la regola del ‘winner-takes-all’.

In totale ci sono 538 grandi elettori e per essere eletti bisogna avere 270 voti elettorali. Dal momento che le liste dei candidati a grande elettore sono espressione dei partiti, l’esito del voto diventa chiaro già nel giorno dell’Election day.

LO SCENARIO PAREGGIO

Per vincere le presidenziali degli Stati Uniti è necessario dunque raggiungere quota 270 voti del Collegio elettorale. Se i candidati restano con 269 voti ognuno, le regole rimandano al XII ementamento della Costituzione per risolvere il pareggio. Se nessuno dei due candidati conta sulla maggioranza dei voti elettorali è la Camera a sceglierlo attraverso un processo speciale. Ad ognuno dei rappresentati di uno Stato si assegna un voto mentre i tre membri del distretto di Washington restano fuori del conteggio. Il presidente sarebbe eletto con la maggioranza semplice, per cui basterebbero 26 dei 50 voti per vincere. Se rimangono ancora in pareggio di 25 voti ognuno si deve ripetere il processo di votazione.

Nella storia degli Stati Uniti la Camera ha dovuto scegliere solo due volte il presidente: nel 1800 quando occorsero be 36 votazioni per scegliere Thomas Jefferson e nel 1824 quando ha scelto John Quincy Adams contro William Crawford e Andrew Jackson.

SAVE THE DATE

1 marzo: il “super martedì”. È previsto che si tengano le primarie in dodici stati. È da molto tempo che candidati come Ted Cruz e Donald Trump fanno campagna elettorale negli stati del sud, perché una prestazione convincente durante il “super martedì” potrebbe proiettare uno dei candidati verso la vittoria alle primarie.

15 marzo: Data molto importante perché le regole del Comitato nazionale repubblicano prevedono che le primarie che si svolgono nei primi mesi dell’anno determinino i delegati nella convention di Cleveland secondo un criterio proporzionale. Le cose cambiano a partire dal 15 marzo. Da questo momento in poi la distribuzione dei delegati funziona secondo il principio del winner-takes-all , nel senso che il candidato che riceve il maggior numero di voti si aggiudica tutti i delegati per la convention di Cleveland. La Florida e l’Ohio votano il 15 marzo con questo principio. Potrebbero essere votazioni molto importanti, se si considera che nelle primarie del Partito repubblicano corrono un candidato proveniente dalla Florida – Marco Rubio – e il governatore dell’Ohio John Kasich.

7 giugno: Si tengono le ultime primarie del 2016 in cinque stati, tra cui la California e il New Jersey. In una competizione repubblicana del tutto peculiare e dalle caratteristiche inedite, questi appuntamenti elettorali potrebbero risultare decisivi.

18 luglio: Comincia la convention repubblicana di Cleveland.

25 luglio: Inizia la convention democratica di Filadelfia che sarà probabilmente caratterizzata da alcuni dibattiti ideologici a causa dell’influenza della candidatura presidenziale dell’outsider Bernie Sanders.

26 settembre: Avrà luogo il primo dibattito presidenziale, alla Wright State university di Dayton, nell’Ohio. Ci saranno tre dibattiti tra i candidati alla presidenza e uno per i candidati alla vicepresidenza.

8 novembre: Il primo martedì successivo al primo lunedì di novembre, più di cento milioni di statunitensi si recheranno alle urne per eleggere i grandi elettori. Il risultato indicherà il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America che entrerà in carica il 20 Gennaio 2017

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La Spagna sceglie Rajoy ma saluta la maggioranza http://www.360giornaleluiss.it/la-spagna-sceglie-rajoy-ma-saluta-la-maggioranza/ Wed, 23 Dec 2015 15:37:58 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5524 Le urne hanno rispettato i sondaggi. L’affluenza è stata superiore al 73% confermando l’entusiasmo per il voto di domenica scorsa, il nuovo parlamento si divide in quattro confermando la fine del bipartitismo e l’ascesa di Podemos e Ciudadanos. “E’ una Spagna nuova quella in cui viviamo” ha detto proprio Pablo Iglesias, leader di Podemos, alla

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Le urne hanno rispettato i sondaggi. L’affluenza è stata superiore al 73% confermando l’entusiasmo per il voto di domenica scorsa, il nuovo parlamento si divide in quattro confermando la fine del bipartitismo e l’ascesa di Podemos e Ciudadanos. “E’ una Spagna nuova quella in cui viviamo” ha detto proprio Pablo Iglesias, leader di Podemos, alla fine dello spoglio delle urne. Senza dubbio ha ragione. La tradizione che ha voluto per quarant’anni di democrazia due forze politiche al comando in continuo confronto deve abituarsi all’idea di essere finita, lasciando spazio a un sistema pluripartitico e aperto ad ogni imprevedibile scenario. Mariano Rajoy vince e sembra rimanere al governo, tuttavia nulla sarà più facile come prima. La più naturale alleanza di governo con il partito di Albert Rivera raccoglierebbe poco. Il 28% del Partido Popular sommato al 13,7 di Ciudadanos è assai lontano dalla maggioranza assoluta. Nulla toglie a un governo di larghe intese la possibilità di nascere, soprattutto se la seconda e la terza forza politica del Paese sono rispettivamente il PSOE di Pedro Sànchez con il 22,1% e Podemos con il 20. Si apre dunque una fase di ampia concertazione e, come ha detto lo stesso primo ministro Rajoy, ciò è fondamentale per non far perdere alla Spagna e ai mercati la scia della ripresa e della crescita.

Una fase di nuova responsabilità dopo gli schiaffi morali della campagna elettorale, i colpi che nessun partito si è risparmiato. Ora è il tempo dei fatti, ma i numeri sono propensi a complicare notevolmente le cose, alla luce di una volontà politica dei cittadini spagnoli così frastagliata.

L’ascesa dei nuovi partiti incoraggia la voglia di cambiare il Paese e di promuovere un nuovo modo di pensare la politica. La vittoria relativa di Rajoy suggerisce l’esatto opposto, mostrando come oltre uno Spagnolo su quattro pensi che le scelte del Partido Popular siano state paradossalmente impopolari, ma alla fine giuste o quantomeno necessarie, dato l’insieme delle difficoltà e delle sfide interne e internazionali che il mondo attuale propone. Oggi nasce una nuova Spagna, ma il parto di un nuovo governo sarà alquanto complesso. I popolari conquistano 122 seggi, molti, ma non moltissimi se guardiamo a una maggioranza assoluta che dovrebbe essere costituita come minimo da 186 deputati. A questi numeri si aggiungono quelli delle altre tre forze politiche principali, i 90 seggi dei socialisti, i 69 di Podemos, i 40 di Ciudadanos, più gli altri delle comunità autonome che hanno confermato di essere in piena crescita, come i partiti baschi e quelli catalani. Particolarmente rilevante a Barcellona è stato l’impatto della alcaldesa, il sindaco Ada Colau, che ha fornito forse il più grande endorsement a Pablo Iglesias, peraltro ex studente laureato in scienze politiche ed Erasmus presso l’università pubblica della capitale catalana.

A questo punto non resta quindi che seguire gli esiti della concertazione e dell’era del dialogo, tutt’altro che prevedibile, tutt’altro che scontata. Rajoy festeggerebbe a metà, se non avesse tanto lavoro per formare una nuova maggioranza, magari più credibile e popolare della prima.

 

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Elezioni in Spagna, fine del bipartitismo? http://www.360giornaleluiss.it/elezioni-in-spagna-fine-del-bipartitismo/ Fri, 18 Dec 2015 15:42:57 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5485 I cittadini chiamati alle urne per scegliere tra nuova e vecchia política   Lo chiamano il 20D per indicare il 20 dicembre, la sigla per l’election day che ricorda l’imminente arrivo delle elezioni generali proprio pochi giorni prima di Natale. Nell’ultimo appuntamento elettorale nazionale Mariano Rajoy aveva vinto a mani basse grazie all’effetto post crisi

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I cittadini chiamati alle urne per scegliere tra nuova e vecchia política

 

Lo chiamano il 20D per indicare il 20 dicembre, la sigla per l’election day che ricorda l’imminente arrivo delle elezioni generali proprio pochi giorni prima di Natale. Nell’ultimo appuntamento elettorale nazionale Mariano Rajoy aveva vinto a mani basse grazie all’effetto post crisi e la voglia di cambiare i colori del governo. Ora, sebbene i sondaggi lo diano in vantaggio, il quadro politico potrebbe assumere una nuova natura. Tante cose sono ormai diverse rispetto a quell’ormai lontano 2011 e al tradizionale bipartitismo spagnolo formatosi dopo la morte di Francisco Franco. Il sistema nato a seguito della transizione democratica potrebbe morire prima delle festività. Basta guardare l’aspra campagna elettorale e i temi del momento per capire che i soliti Partido Popular e PSOE, il partito socialista guidato dal giovane ed energico segretario Pedro Sànchez dal luglio 2014, devono prestare attenzione alla spinta innovativa di Podemos e Ciudadanos.

Perché se Rajoy e Sànchez si affrontano nei classici dibattiti televisivi, il primo difendendo le scelte del governo, il secondo criticando il criticabile e il non, tra offese personali, tradizionali populismi e attacchi diretti carenti di proposte, l’opinione dei cittadini, soprattutto dei giovani, sembra dar fiducia alle nuove forze politiche. Malgrado le piccole percentuali finora ottenute a livello nazionale da Alberto Garzon con la sua Izquierda Unida e al leggero calo di Albert Rivera e Ciudadanos, Podemos sembra affermarsi come forza politica stabile con un potenziale 20%, ma tutto da confermare domenica prossima. Se infatti il suo leader Pablo Iglesias sembra avere la spinta che ebbe Beppe Grillo nell’Italia del 2013, allo stesso modo i sentimenti degli spagnoli sono combattuti tra il tentare una rischiosa novità o l’affidarsi alla solita triste realtà della vecchia politica, ma porto stabile e sicuro a casa come in Europa.
Rivera è stato penalizzato dagli ultimi dibattiti in tv allontanando la possibilità di ottenere la maggioranza assoluta con un patto insieme al PP di Rajoy. Igleasias è ancora abbastanza imprevedibile sul piano delle alleanze per non perdere la scia dinamica della protesta popolare contro l’austerity e le misure del precedente governo.

Il tutto si colora poi di vivacità e focosità iberica se si pensa al pugno tirato in pieno volto all’attuale primo ministro Rajoy da un ragazzino di appena 17 anni durante la campagna elettorale, ricordando per certi versi la miniatura del Duomo scagliata contro l’allora premier italiano Silvio Berlusconi, oppure se si fa riferimento alle forti critiche pseudo anarchiche regionali, dalla Catalogna ai Paesi Baschi, contro la solita classe dirigente corrotta di Madrid che altro non merita di essere additata come “ladrona” in un perfetto stile bossiano. Per dare in maniera più organica dei numeri però, come amano fare i sondaggisti moderni, Rajoy e il Partido Popular sono al momento stabili al 25%, seguiti dal PSOE di Sànchez al 21, Podemos al 19 e Ciudadanos al 18.

Secondo le previsioni, fossero i sondaggi rispettati dalle urne, di tutto si potrebbe parlare tranne che di un mantenimento del bipartitismo classico. Per conquistare il palazzo della Moncloa tutti aspettano la risposta dei cittadini, prima di azzardare ogni possibile alleanza, molto ardua a questo punto, ma quel che sembra possibile è una grande partecipazione al voto, a dispetto di un temuto astensionismo.
Gli impulsivi spagnoli hanno tanta voglia di dire la propria, come nei bar delle grandi città o nei localini storici che caratterizzano le coste del Paese, da Barcellona fino all’Andalusia passando per le città di Valencia e Siviglia.

Per quanto riguarda le elezioni in senso stretto, tutto si deciderà questa domenica, ma per le conseguenze politiche sicuramente non basterà la fine del 2015. Come è tradizione, seguendo la campagna elettorale la Spagna sembra essere prossima a una svolta indimenticabile che farà la storia. Come è tradizione, permane il forte rischio che al tramonto di questa tornata elettorale, in perfetto stile gattopardesco tutto possa essere diverso senza aver di fatto cambiato nulla.

 

 

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Ballottaggi, Immigrazione e Riforme in bilico, fine del ciclo renziano? http://www.360giornaleluiss.it/ballottaggi-immigrazione-e-riforme-in-bilico-fine-del-ciclo-renziano/ Wed, 17 Jun 2015 11:17:11 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=3923 Il blackout del sito dedicato alle elezioni regionali siciliane rimane solo un aspetto emblematico, ma il passaggio a vuoto della politica renziana sta costruendo nuovi scenari politici in un orizzonte che si manifesta attraverso l’esito dei ballottaggi, in Sicilia come in tante altre città italiane. In perfetto parallelismo il Movimento Cinque Stelle conquista cinque ballottaggi,

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Il blackout del sito dedicato alle elezioni regionali siciliane rimane solo un aspetto emblematico, ma il passaggio a vuoto della politica renziana sta costruendo nuovi scenari politici in un orizzonte che si manifesta attraverso l’esito dei ballottaggi, in Sicilia come in tante altre città italiane. In perfetto parallelismo il Movimento Cinque Stelle conquista cinque ballottaggi, in particolare a Gela dove il candidato dei Grillini Domenico Messinese ha vinto con il 65% dei consensi. Un risultato importante proprio nel fortino del governatore regionale Rosario Crocetta per tutte quelle opposizioni giudicate negli ultimi anni fiacche e a fine ciclo, dal M5S alla minoranza del PD. Simbolico anche il successo di Maurizio Dipietro, ex PD fuoriuscito dal partito proprio a causa dei contrasti con la nuova dirigenza democratica, e vincitore su un candidato rilevante come Vladimiro Crisafulli, superato dal 51,9% del rivale.

Nuove ripercussioni nella politica nazionale quindi, dove Matteo Renzi non ha temuto finora il confronto e dove lamenta quasi spavaldamente sconfitte solo dove ha aperto al dialogo con le minoranze. Le altre correnti del Partito Democratico avverse al governo hanno ripreso a sfornare le critiche sulla sovrapposizione delle cariche Segretario-Premier, le opposizioni M5S e Forza Italia sono pronte a far vacillare l’iter delle riforme, a partire dalla legge elettorale. Il senatore berlusconiano Augusto Minzolini di Forza Italia e perfino il bersaniano Gotor auspicano una modifica dell’Italicum, mentre la Lega Nord di Matteo Salvini incalza sul nodo immigrazione.

Alle parole di Matteo Renzi “Sono tentato dallo sfidare Salvini e Grillo alle urne anche subito, ma la mia è una responsabilità verso il Paese e in questo momento devo governare per completare la mia missione” risponde secca e seccata Rosy Bindi, già protagonista dello “scherzetto” a De Luca con la commissione antimafia “Inutile dire che abbaiamo e mordiamo senza proporre alternative, i risultati elettorali e le sconfitte sul campo parlano chiaro ed è necessario cambiare metodo di governo”.

Roberto Fico esprime invece soddisfazione per i risultati del Movimento “già dato per morto” in Sicilia nel momento in cui il candidato Dem Matteo Bracciali, pupillo di Maria Elena Boschi, aveva già constatato la propria sconfitta ad Arezzo, città natale del ministro storica figura della Leopolda.

L’entusiasmo e la carica del Renzismo sono quindi finiti facendo vacillare la prospettiva di un governo del segretario-premier fino al 2018? Le tappe decisive non riguarderanno solo la politica locale, ma quella regionale in senso lato, in senso continentale. Il prossimo consiglio europeo è previsto per il 25 giugno e il Governo appare in seria difficoltà sui fronti dell’immigrazione. Mentre le opposizioni guidate da Salvini e il capogruppo alla Camera di FI Renato Brunetta attaccano per puro opportunismo politico le frontiere europee si chiudono a riccio a lasciano solo un intero Paese. A Bolzano migranti in possesso di un regolare biglietto di treno per l’Austria vengono respinti da diverse settimane, altri sono in stallo sugli scogli liguri presso la cittadina di Ventimiglia perché allontanati dai “doganieri” francesi. E’ strano parlare di doganieri nell’Europa di Schengen eppure risulta altresì evidente un processo di involuzione nel processo di integrazione del continente. Le richieste di asilo nell’ultimo anno per l’Europa sono state 658mila nei mesi in cui il solo piccolo Libano accoglieva più di un milione e mezzo di rifugiati. A questo punto spunta l’ipotesi di un lasciapassare a tempo per i profughi di tre mesi, ma è difficile sia sufficiente per chi è in viaggio da circa due anni, nel disperato tentativo di salvare la propria vita e raggiungere i familiari residenti nell’Europa continentale.

Se in un quadro così complesso si colloca la ciliegina di mafia capitale, dove la credibilità del sindaco di Roma Ignazio Marino vacilla, si intuisce che non proprio cimbri ma nembi sono quelli che si prospettano nel plumbeo cielo del governo Renzi. Ora il prefetto Franco Gabrielli ha ricevuto la documentazione sugli affari di Salvatore Buzzi e quasi sicuramente si occuperà del nodo romano del Giubileo. Un evento cui il Governo arriverà, se arriverà, con qualche patema d’animo e con l’obbligo di dare innovative risposte a nuove emergenze di vecchi problemi.

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Amministrative spagnole, un salto lontano dall’Austerity http://www.360giornaleluiss.it/amministrative-spagnole-un-salto-lontano-dallausterity/ Mon, 25 May 2015 22:11:21 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=3869 24-M non è il modello di un mortaio, eppure è deflagrato come una bomba. Era la sigla delle elezioni amministrative e municipali del 24 maggio che hanno raso al suolo le roccaforti del governo. Mariano Rajoy non se la passa molto bene. Ha perso Barcellona e vede vacillare anche Madrid, il suo Partido Popular scende

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24-M non è il modello di un mortaio, eppure è deflagrato come una bomba. Era la sigla delle elezioni amministrative e municipali del 24 maggio che hanno raso al suolo le roccaforti del governo.

Mariano Rajoy non se la passa molto bene. Ha perso Barcellona e vede vacillare anche Madrid, il suo Partido Popular scende al circa 27% dal solido 40% del 2011 e assiste alla débacle delle regioni autonome. Ben 11 su 13 sono state conquistate dall’ondata nuova di Podemos, l’oculato consolidamento politico del movimento degli Indignados, il motore propulsore del rinnovamento sistemico ai danni del tradizionale bipartitismo Socialisti-Popolari.

Ora cosa accadrà alle elezioni politiche di novembre? La neosindaco di Barcellona Ada Colau, la trionfatrice assoluta di questa tornata, è pronta a dare inizio alla rivoluzione democratica, i Popolari con il candidato Aguirre non hanno più i numeri per governare Madrid e Podemos, grazie alla lista Ahora di Manuela Carmena, potrà farlo al loro posto con l’aiuto dei Socialisti del PSOE. Il leader e fondatore di Podemos Pablo Iglesias parla di notte magica e vittoria di Davide contro Golia, festa per le strade e svolta politica in arrivo. La terza forza politica, figlia della ribellione al sistema tradizionale e ai sacrifici della crisi, ha sbaragliato il bipolarismo, ma dovrà conciliare molte correnti contrastanti. Una situazione alquanto inedita per la bomba lanciata da questi risultati elettorali. Nel mare dell’ignoto galleggiano attualmente due sole certezze. La deriva nefasta dell’indipendentismo catalano che ansima per le ferite subite dai nazionalisti indipendentisti, sostenuti storicamente dai partiti di destra, e il chiaro no degli elettori alle politiche dell’austerity di Rajoy. Tuttavia, se da una parte la svolta a sinistra non è netta, dato che il riferimento è un quadro politico completamente inedito, dall’altra il premier Rajoy ha dovuto agire a causa della crisi, sebbene, a differenza dell’Italia con un mandato elettoralmente riconosciuto nel 2011, esattamente come il Premier “Commissario” Mario Monti. Dalle massime vette dello spread dei Bonos spagnoli e dei BTP italiani nei confronti Bund tedeschi, ha dovuto stringere obbligatoriamente la cinghia ai conti pubblici e applicare politiche estremamente restrittive. Non una giustificazione, ma certamente una conseguenza fisiologica il successo dei movimenti giovani. Ciudadanos è pronto a sostenere Podemos sull’onda dell’entusiasmo, si definiscono diversi dal Movimento 5 Stelle e da Beppe Grillo, sono pronti a governare per il popolo accontentandosi in questo momento, solo si fa per dire, dei Comuni e delle regioni autonome, quasi la totalità delle tredici nelle quali si votava sul complesso di diciassette.

Il Partido Popular è ancora la prima forza politica in Spagna, ma l’emorragia sembra inarrestabile. 26,7% davanti al PSOE che ha il 25,23% non è affatto rassicurante date le ben diverse premesse della vigilia. 2,6 milioni di voti persi sia nelle grandi città che nelle piccole regioni. La Izquierda Unida (Sinistra Unita) è pronta al sorpasso in vista delle prossime politiche. Resta da vedere se la sfida al PP rimarrà una battaglia limitata al contesto locale, oppure sa saprà raccogliere l’eredità delle sfide da affrontare, in economia come in politica, in Europa come nel mondo. E il governo italiano nel suo piccolo ma problematico bacino di mare spera in un ripensamento della Spagna sulle quote degli immigrati da accogliere.

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