Narratività – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Thu, 22 Feb 2018 10:08:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png Narratività – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 Requiem http://www.360giornaleluiss.it/requiem/ Sun, 17 Dec 2017 14:35:17 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=9099 L’aria fresca del mattino inondava la piazzola del mercato; nel frattempo acquirenti e passeggiatori si aggiravano sotto il primo, tiepido sole. La brezza filava leggera e portava lontano l’odore delle patate appena cavate, quello acre dell’aglio o quello inconfondibile del pesce fresco. Andrea si muoveva svelto fra i più mattinieri e le casse di verdura,

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L’aria fresca del mattino inondava la piazzola del mercato; nel frattempo acquirenti e passeggiatori si aggiravano sotto il primo, tiepido sole. La brezza filava leggera e portava lontano l’odore delle patate appena cavate, quello acre dell’aglio o quello inconfondibile del pesce fresco. Andrea si muoveva svelto fra i più mattinieri e le casse di verdura, fermandosi solo dai commercianti di fiducia. Ogni mattina lo stesso giro, gli stessi orari, la stessa spesa e forse anche gli stessi occhi a scrutarlo, senza che in fondo lo guardassero davvero. In breve ebbe tutto l’occorrente per la cena.

Preoccupato di non essere pronto in tempo, cominciò a pulire e riordinare l’appartamento già lindo; nel primo pomeriggio, la tavola era imbandita; al tramonto, Andrea, dopo essersi lavato e fatto la barba, si annodava la cravatta davanti allo specchio. Diede un rapido sguardo alla casa, trovandola perfetta. Si sedette infine sul divano e iniziò a fissare l’orologio.

Lei era molto puntuale: le lancette scoccavano le otto quando Andrea sentì un rumore di tacchi che salivano le scale. Nonostante la preparazione psicologica, si agitò, combattuto fra l’impulso di correre ad aprire e le buone maniere, che imponevano di attendere il suono del campanello. Udito il tintinnio, Andrea si precipitò ad aprire.

“Ciao papà!” esclamò la ragazza sulla soglia.

“Ciao Chiara, prego entra”.

Tutti i parenti dicevano che Chiara non assomigliava molto al padre e, vedendola crescere, anche Andrea se ne convinse. Le appese la giacca e la fece accomodare a tavola, curandosi di scostare la sedia per farla sedere.

“Com’è andato il volo?” chiese Andrea.

“Tutto bene grazie, l’unico problema è stato arrivare all’aeroporto. Un traffico immane”.

“Non potrei mai abitare in una città grande come Londra. Con John, tutto bene?”.

“Direi proprio di sì. I primi problemi di convivenza sono superati, e lui ha ottenuto un aumento” rispose Chiara, mentre Andrea serviva lo sformato di verdure e un calice di vino.

“E tu papà, come passi le tue giornate?” domandò la ragazza.

“Beh, solita vita da pensionato. Niente di nuovo sotto il sole. L’unica cosa che faccio davvero è ingrigire”.

“Hai solo settant’anni, non lo sai che è la nuova gioventù?” Rise Chiara.

“Oh bene, allora domani andrò a comprarmi dei pattini e ci farò un giro”.

“I pattini si usavano negli anni ottanta papà”.

“Hai detto che dovevo tornare giovane, non hai specificato quale giovinezza”.

Trascorsero buona parte della serata discorrendo della vita di Chiara a Londra e del suo lavoro, o delle stranezze dei vecchi amici di Andrea. Nel frattempo gustavano la cena e Chiara elogiò più volte la cucina del padre, che non era mai stato bravo a fingersi modesto. La sala comunicava con la cucina ed era illuminata da una luce soffusa, quasi lunare. La condensa sul vetro delle finestre era solcata da piccole goccioline d’acqua; queste s’intrecciavano a formare gocce più grandi, o scendevano rapide senza incontrarsi. Nell’appartamento di Andrea i colori sembravano rispondersi da una stanza all’altra, grazie a precise simmetrie e accostamenti. Le foto erano sistemate in ordine di tempo, gli ammennicoli disposti dal più piccolo al più grande e i mobili ad angolo retto fra loro.  Una maschera tribale africana appesa al muro e un kriss malese dal pamor damascato creavano un piacevole contrasto con un arredamento tutto sommato classicheggiante e rendevano più accogliente la casa.

“Qualche giorno fa sono stata in quel locale che ti dicevo al telefono l’altra volta -disse Chiara- e c’era un tizio all’ingresso che era identico e spiccicato a Ryan Gosling. Jasmine per poco non si beccava un ordine restrittivo da un perfetto sconosciuto”.

“Chi è Ryan Gosling?” rispose Andrea storpiando la pronuncia del cognome.

“Lascia stare papà, tu sei rimasto a Marlon Brando e Maria Schneider”.

Andrea nel frattempo raccoglieva i piatti sporchi per portarli nel lavello e, come talvolta accade, le parole uscirono dalla bocca di Chiara senza passare per il cervello. Dicono che quelle sono le parole migliori, perché vengono dal cuore, lo stomaco o da altre interiora, ma la gente dice troppe cose senza farle passare prima per il cervello.

Ovvero dell'amore

“Perché non mi racconti come vi siete conosciuti tu e la mamma?” esclamò.

“Come mai ti è venuta voglia di saperlo?” rispose Andrea vagamente incupito.

“Non me l’hai mai detto, sono curiosa”.

Il padre lasciò perdere i piatti e tornò a sedersi di fronte alla figlia. Chiuse un istante gli occhi e prese un lungo, profondo respiro.

“Portava una giacca di jeans -disse- e delle scarpette basse, i capelli castani raccolti in una lunga treccia e masticava una gomma americana. Sembrava una delle tante spocchiose che aspettavano il tram. Non so perché ma sono andato a sedermi nell’unico posto libero vicino al suo. Non era troppo alta, né troppo magra; mi sentivo a mio agio standole a fianco, perché neppure io ero mai stato qualcosa di preciso. Dopo due o tre fermate iniziò a parlarmi e se ne uscì con una memorabile recensione di “Singin’ in the rain”. Dio quanto parlava! E quando parlava troppo le si coloravano le guance. Scendemmo alla stessa fermata, solo che io non dovevo scendere lì, e lei neppure”.

“Dovevate essere proprio due teste calde” sorrise Chiara. “Ricordo che da piccola mi avevi fatto vedere una foto in cui tu e la mamma eravate in barca a vela”.

“Ce la scattò un certo George, al largo delle coste di Bequia. Tua madre quel giorno non la smetteva di ridere. Rideva per qualsiasi cosa. Non l’avevo mai vista così felice, e così bella. Il sole chiudeva i suoi verdissimi occhi -disse Andrea carezzando l’aria come per accarezzare i ricordi- e quando si passava la mano nei capelli, tutti i braccialetti che aveva facevano un rumore particolare, come quando si accende un fiammifero. Ma prendi con le pinze tutto quello che ti racconto, negli anni ci ho ricamato sopra; di noi due ero io quello romantico” concluse con un filo di voce.

Pur non dubitando delle parole del padre, Chiara insisteva a picchiettarsi il ginocchio ed era visibilmente turbata. “Io non potrò mai ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto per me: mi hai cresciuta da solo, mi hai dato tutte le possibilità. Sei un buon padre. Però da come ne parli, tu e la mamma vi siete amati davvero, allora perché qui non c’è una sua foto, perché non sei mai andato al cimitero, perché non sei venuto neppure il giorno del funerale?”.

Andrea non si scompose: aspettava quella domanda da sempre.

“L’hai appena detto: tua madre l’ho amata, e l’amo ancora. Sai cosa si deve fare quando due conigli hanno vissuto sempre insieme e uno dei due muore? Bisogna lasciare il coniglio morto vicino a quello vivo, fino a che non si accorgerà che l’altro non c’è più. Solo allora si può seppellire quello morto” rispose Andrea.

“Che cosa vuoi dire?”.

“Non ho mai seppellito tua madre, per me non è mai morta. Avere intorno sue fotografie, o qualsiasi cosa che me la ricordi non farebbe altro che ucciderla di nuovo, nell’unico posto in cui vive ancora”.

La ragazza rimase lungamente in silenzio.

“Scusa papà” disse poi sottovoce.

“Non preoccuparti Chiara. Forza, mangiamoci una fetta di dolce” rispose Andrea.

“Un’ultima cosa. Quando ti fece chiamare nella sua stanza, prima di morire in ospedale, cosa ti ha detto?” domandò Chiara stropicciando il tovagliolo.

Negli occhi del padre, la figlia vide passare come un’ombra scura. Un buio che durò poco, presto sopraffatto dall’affetto con cui l’uomo guardava sempre Chiara.

“Disse che mi amava e che dovevo prendermi cura di te, poi mi strinse la mano e poi la macchina a cui l’avevano attaccata iniziò a suonare… Beh, lo sai cosa è successo dopo” concluse Andrea. La ragazza capì che il tempo della memoria era finito.

La serata volse al termine. Chiara abbracciò forte il padre e, nel chiudere l’uscio, fece pianissimo.

 

Fuori il cielo notturno era limpido e stellato. L’uomo stava ultimando la pulizia dei fornelli, quando sentì una voce acuta e leggera. Dietro di lui, sulla poltrona cenere, sedeva una donna magra, con le scarpette basse e i capelli castani raccolti in una lunga treccia.

“Grazie per non averle detto la verità”, disse la donna.

“Che senso avrebbe farle del male ora come ora” rispose Andrea.

“Chiara aveva ragione, sei stato un buon padre”.

“Le ho semplicemente voluto bene”.

“Hai fatto molto di più. Hai reso mia figlia felice e lo hai fatto scegliendolo, scegliendo di essere suo padre. Te ne sei mai pentito?”.

“Mai -e aggiunse- Chiara non t’assomiglia tanto, deve aver ripreso dal padre”.

La donna prese a guardare con gli occhi grandi il bianco del soffitto e notò che delle piccole crepe, appena visibili, disegnavano i contorni di un cipresso.

“Potrai perdonarmi un giorno?” chiese.

Andrea la guardò un’ultima volta, poi spense la luce e andò a dormire.

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La collina del vento http://www.360giornaleluiss.it/la-collina-del-vento/ Fri, 07 Apr 2017 09:27:25 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8470 Degno di nota il libro “La collina del vento” scritto da Carmine Abate, nato in un paese arbreshe in provincia di Crotone, Calabria. Pubblicato da Mondadori nel 2012, questo romanzo è stato vincitore del Premio Campiello nello stesso anno. Viene raccontata la quotidianità calabrese durante i primi anni ’90 e l’autore ci mostra con quanto

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Degno di nota il libro “La collina del vento” scritto da Carmine Abate, nato in un paese arbreshe in provincia di Crotone, Calabria. Pubblicato da Mondadori nel 2012, questo romanzo è stato vincitore del Premio Campiello nello stesso anno.

Viene raccontata la quotidianità calabrese durante i primi anni ’90 e l’autore ci mostra con quanto animo i calabresi si battono per libertà ed istruzione.
Background del romanzo è un contesto dove la criminalità organizzata regna incontrastata, complici corruzione ed omertà.
È tale il duplice volto di una Calabria che esiste ancora, povera di tutto ma ricca di sogni e che auspica un futuro dove regnino equità e libertà di pensiero.

Protagonista è una tipica famiglia calabrese, gli Arcuri, scrigno di quei valori che vengono tramandati di generazione in generazione e che vengono considerati linfa vitale: senso di appartenenza verso la terra natia e verso il focolare domestico.

L’autore dipinge con stupefacente abilità soprattutto il paesaggio calabrese: le descrizioni lambiscono il paradisiaco e trascinano il lettore sul luogo della narrazione attraverso le carezze della brezza del Mar Ionio, l’inconfondibile essenza di sulla, e l’accecante rosso vivo del tramonto.

Ma c’è un altro rosso che irriga le terre del Rossarco: il rosso di un nero omicidio, rintanato nell’oscurità della memoria degli Arcuri che, scalpitante, attende di tornare in superficie.
Intanto La collina del Rossarco è palcoscenico di scavi archeologici volti alla ricerca di Krimisa, importante capoluogo della Magna Grecia.

Un libro commovente che fa riflettere sugli sforzi che i calabresi hanno fatto per progredire e di come continuino a prodigarsi per il futuro delle nuove generazioni.
Il linguaggio è chiaro e fruibile ad un pubblico composito, lo stile di scrittura coinvolgente, la trama è tanto interessante da non permette al lettore di chiudere il libro senza prima averlo terminato.

Vanessa Vecchio

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Tavolo per uno su via Veneto http://www.360giornaleluiss.it/tavolo-per-uno-su-via-veneto/ Mon, 09 Jan 2017 16:44:22 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7932 Un vecchio politico cena solo su un tavolino del Girarrosto di via Veneto, la televisione manda una melensa cover di Imagine di John Lennon. La sogliola stavolta è più sciapa del solito. La melodia triste arriva alle mie orecchie mentre passeggio verso Muro Torto, una cover così triste che sembra quasi messa apposta per allontanare i

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Un vecchio politico cena solo su un tavolino del Girarrosto di via Veneto, la televisione manda una melensa cover di Imagine di John Lennon. La sogliola stavolta è più sciapa del solito. La melodia triste arriva alle mie orecchie mentre passeggio verso Muro Torto, una cover così triste che sembra quasi messa apposta per allontanare i possibili clienti. I giorni d’oro di Via Veneto non sono mai stati lontani come oggi, in pochi si ricordano ancora di quelle nottate e di come quella Roma bene, durante gli anni Settanta/Ottanta, si sapeva divertire. Sono soprattutto gli americani a vivere ancora di questo fascino, si sbronzano e ordinano tutto ciò che c’è sulla carta. Si riconoscono facilmente dal loro naso rosso paonazzo come quando si ha freddo.

La via pullula di uomini in giacche lunghe, sono gli aguzzini dei night, stanno lì e lasciano i bigliettini per i locali appena dietro l’angolo. Si trova davvero di tutto, sono scene crude per chi ne ha viste tante. Entra anche qualche “bravo” ragazzo alla ricerca di cocaina e sesso facile, provando a darsi un’aria diversa, più vissuta. Vuole provare il gioco dei grandi e vedere se può far male. Neppure gli splendidi palazzi sembrano avere più niente da dire, sfoggiano superficialmente il loro lusso e la loro ricchezza, rincorrendo un passato lontano. Sono le ultime macerie di una Roma che faceva tendenza e che prima era il teatro di ogni notte brava. Oggi però, oltre la facciata di nastrini e bei vestiti, rimangono solo i volti femminili ancor più finti e ingannevoli del menù dei ristoranti.

Arrivo alla fine della via e ho come l’impressione di essere su un set cinematografico: una scenografia talmente kitsch e anonima da non poter essere reale. Riesco a vedere le rughe e le imperfezioni di questa storica via, che prima rappresentava per molti un modello di mondanità esclusivo e invidiabile, ora invece mi appare come una realtà estranea, quasi impossibile da comprendere. Dietro la splendida sagoma dell’Excelsior resta solo la nostalgia degli addetti ai lavori e degli intramontabili habitués. Io sono arrivato alla macchina e nel frattempo la cover è finita. Il signore seduto al tavolo fa segno di volere il conto. Il cameriere fidato si avvicina e gli domanda: “Non desidera altro, onorevole?”.

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Conversazione con “Io te e il mare” http://www.360giornaleluiss.it/conversazione-con-io-te-e-il-mare/ Thu, 24 Nov 2016 11:05:44 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7645 “Non ho poi molto da offrire, una serie infinita di guai, instabilità perenne, rabbia quanta ne vuoi, giornate di pioggia a ripararti come posso, baci tanti, parole di più, non ho molto da dare è questa la verità ti posso regalare se ti andrà lettere di seta e poi tutti i tramonti che vuoi” Continuando

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“Non ho poi molto da offrire,15145059_10208170739162595_762887840_o
una serie infinita di guai,
instabilità perenne,
rabbia quanta ne vuoi,
giornate di pioggia
a ripararti come posso,
baci tanti,
parole di più,
non ho molto da dare
è questa la verità
ti posso regalare
se ti andrà
lettere di seta e poi
tutti i tramonti che vuoi”

Continuando sulla scia precedente, e quindi il dialogo con chi nella vita vuole trasmettere delle emozioni, questa volta ho scelto una giovane penna che ha scelto quale strumento di comunicazione con le persone il mondo dei social. Ha cominciato ad utilizzare i social a gennaio e ha raggiunto quasi 62mila followers su Instagram e quasi 12mila su Facebook in così poco tempo. Un’altra scrittrice anonima, nata sotto il nome “Io, te e il mare”, in grado di parlare all’anima di ogni suo lettore. Affronta i temi più sentiti ai suoi coetanei, l’amore, l’amicizia, la nostalgia. Ho scelto di intervistare, quindi, questa giovane donna per conoscere il suo mondo interiore, da cosa prende forza, e dar spazio a scrittori emergenti, che hanno scelto di iniziare la loro “carriera” proprio attraverso i mezzi che quotidianamente riempiono una grande parte dei nostri spazi.

Prima di lasciarvi all’intervista, vorrei cogliere l’attimo e ringraziare una persona un po’ speciale che mi ha fatto conoscere questa pagina, che seguo ormai da un po’ di tempo e che non mi stanca mai, ogni lettura è sempre un grande piacere, è davvero come se leggesse un po’ dentro alle parole che spesso non abbiamo cura di dire a noi stessi, una quasi coscienza dei nostri sentimenti; quindi grazie G., per aprirmi sempre mondi nuovi, so che stai leggendo, quindi ci tenevo a ringraziarti.

Cosa ha mosso la tua penna la prima volta?

Potrei dirti tutto e niente… Nel senso che non c’è qualcosa che mi ha fatto venire voglia di scrivere, perché in realtà non ricordo nemmeno il momento esatto in cui ho iniziato a scrivere, ricordo solo che non ho mai smesso. Ciò che muove la mia penna sono i miei sentimenti, ciò che provo; io scrivo di come mi sento e scrivere mi aiuta veramente a guardarmi dentro, a conoscermi, io posso dire di scrivere per me e a me, perché quando scrivo mi parlo. Forse quel che ha mosso la mia penna per la prima volta è stato il bisogno di imparare ad ascoltarmi.

Che ruolo hanno, quindi, i sentimenti nella tua vita, sia “lavorativa”, che privata, e nella tua sfera più intima?

Certamente un ruolo fondamentale. Io sono i sentimenti che provo, perché solo loro mi sanno descrivere appieno. Se per sfera “lavorativa” intendi nella scrittura, le parole sono forse addirittura subordinate ai sentimenti perché mi servono per farli evadere, per farli uscire fuori da me e per dargli un senso, anche. E forse anche in tutto il resto delle cose della mia vita i sentimenti sono questo, per me: qualcosa che sta al di sopra di tutto e che mi tiene fortemente in pugno, aiutandondomi anzi forse forzandomi nelle scelte, in ogni decisione. Hanno un ruolo fondamentale perché non sono capace di dire di no ai miei sentimenti, non li so abbattere, non li so mandare via, e li ascolto parlarmi, e ne sono schiava.

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Come mai la scelta dei social come “diario” personale?

Ho scelto i social per scoprire se ne valeva la pena di lasciare i miei pensieri solo nella mia testa oppure sui miei quaderni. Ho capito di no. Forse volevo condividere con più gente che potevo tutto quello che non volevo dire a nessuno, ed è di sicuro una contraddizione. Ma mi è servito per scoprire che il dolore è veramente universale, e anche la nostalgia, la mancanza, la gioia, la paura, l’insicurezza. E per quanto ci ostiniamo a chiuderci dentro ai nostri mondi piccoli, quello che proviamo noi da qualche parte lo sta provando anche qualcun altro, certo in altri modi, certo per altri motivi, ma si tratta proprio di quello stesso sentimento. Ho reso “social” tutto quello che andrebbe scritto su un diario segreto forse soprattutto per avere alcune conferme, poi mi sono resa conto del fatto che mi è servito a sentirmi meno sola e spero sia servito a chi legge per la stessa identica ragione.

Parlando di social, dunque, e soprattutto della tua concezione di utilizzo, che ruolo hanno i tuoi seguaci e i tuoi fan, in ciò che scrivi e che vivi quotidianamente?

I miei lettori sono diventati veramente importanti per me col tempo. Non sai quanto è bello svegliarsi e trovare i messaggi di chi ti scrive anche un semplice grazie, di chi ti dice “trovi le parole che stavo cercando” “hai talento” e tutto il resto. È meraviglioso davvero perché ti convince che non stai sognando invano, se capisci che intendo, che a qualcuno arrivi. I miei lettori sono il coraggio che mi manca, ci credono per me, e rappresentano la linea di confine tra sogno e realtà.

Non vedo l’ora di svelargli la mia identità e lo farò presto, non appena la pagina compirà un anno, perché non voglio più nascondermi e voglio fargli questo regalo che può sembrare poco ma che è veramente una cosa difficilissima per me, metterci la faccia è un’altra cosa. Così sono importanti i miei lettori per me, tanto da spingermi a non avere più paura

Pensi sarebbe stato lo stesso se avessero conosciuto chi sei dal primo post?

Questo non lo posso sapere. Forse non sarebbe stato lo stesso per me, che probabilmente non sarei riuscita ad esprimere me stessa in una maniera così profonda, ma nemmeno di questo sono sicura

Hai obiettivi futuri? Per esempio la pubblicazione, il cartaceo, o pensi di fermarti ai social?

Non vorrei mai fermarmi ai social. Ovviamente, per quel che dipende da me, proverò a pubblicare qualcosa certo, in questo senso ho obiettivi futuri.

Ce ne vuoi anticipare qualcuno? Ci sono progetti che hai già in mente? 

In realtà vorrei provare a scrivere un romanzo, c’è una storia che vorrei raccontare, non ho la pretesa di riuscirci ma mi impegnerò di certo. Più in là inoltre vorrei iscrivermi alla Holden di Torino, dopo la triennale. Per ora è tutto qui.

Allora, per chiudere in bellezza questa intervista, vorrei chiederti di lanciare un messaggio a tutti quanti quelli che ti leggeranno, a tutti quelli che leggono sempre ciò che scrivi e che leggeranno anche questo articolo, con le parole che solo tu, in questo tuo modo così personale e struggente, sai fare.

“I sentimenti sono ingombranti,
si piazzano un po’ dove vogliono
e si prendono tutto lo spazio che possono
e pretendono d’avere sempre ragione,
i sentimenti,
anche quando non ce l’hanno per niente
anche quando insomma è chiaro che se ti butti in quegli occhi lì ti farai male da morire e forse ne uscirai vivo, magari più forte,
ma pur sempre di sicuro cambiato.
I sentimenti sono arroganti
e non ne vogliono mica sapere di ascoltarti
la tua mente è solo un posto comodo dove appoggiarsi e non importa poi tanto se ragiona, se vuole farsi sentire in qualche modo, se vuole avvertirti di stare attento
che i sentimenti non sono coraggiosi, direi piuttosto spericolati
sempre pronti a tutto pur di nutrirsi
sempre pronti a farti rischiare la pelle per farti avere in cambio qualche brivido sfrenato
e una luce un sacco profonda da portare negli occhi
da far vedere agli altri per mostrargli
quanto vivo sei anche se non sembrava.
I sentimenti sono egocentrici
e se ti stanno addosso tu non sei in grado di vedere altro
e tutto quanto gira intorno a loro e non puoi rifiutarti di assecondarli o di farti trascinare via lontano dove ti vogliono portare
perché sono proprio maledettamente affascinanti, i sentimenti,
e anche la sofferenza anche se non sembra
alla gente piace un sacco
tanto che
se non ci sono motivi per soffrire
finisce per inventarseli
che forse
mi viene da pensare
il dolore ci fa sentire meno soli, un po’ più uguali.
I sentimenti sono rischiosi
io se potessi scegliere mica li seguirei mai
ma una scelta non c’è, di fronte ai sentimenti
li hai già scelti senza aver scelto proprio un cazzo di niente
eppure son sicura che è meglio così
in qualche modo
perché saranno pure completamente folli, inarrestabili e del tutto incomprensibili
ma restano comunque
i sentimenti
tutto quello
che di bello
ci portiamo dentro.”

“e poi lo sai

l’ho sempre pensato

che quasi mi disgusta

soltanto immaginare

di vedere sempre dal balcone

arrivare lo stesso volto innocuo

che nella mia testa guarda caso

è praticamente sempre il tuo

se ci penso insomma, dico

cioè se immagino me

tutta la vita e sempre

con una sola persona e basta

allora non so perché

quella persona lì sei tu.

E da una parte

l’idea non mi dispiace

a me che fa schifo

solo pensare

di toccare le stesse mani eternamente

e di sfiorare nel letto sempre gli stessi piedi freddi

forse mi andrebbe

di condividere con te

quel che resta di me”

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Scrivere di me http://www.360giornaleluiss.it/scrivere-di-me/ Sat, 22 Oct 2016 13:57:09 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7297 Scrivere di Sé, scrivere del Mondo: prospettive che possono apparire in radicale contrasto, in assoluta opposizione. Nulla di più distante, si direbbe, tra il narrare l’animo umano, i suoi pensieri, i suoi tormenti, i suoi recessi più reconditi e oscuri, e il raccontare quello che si incontra nel viaggio della vita per come appare, senza tentare

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Scrivere di Sé, scrivere del Mondo: prospettive che possono apparire in radicale contrasto, in assoluta opposizione. Nulla di più distante, si direbbe, tra il narrare l’animo umano, i suoi pensieri, i suoi tormenti, i suoi recessi più reconditi e oscuri, e il raccontare quello che si incontra nel viaggio della vita per come appare, senza tentare di ingentilirlo con la lirica o di omettere nulla: prima facie è questo l’abisso che divide l’opera di Fernando Pessoa e quella di Louis-Ferdinand Céline.

Pessoa, nella sua inesauribile vocazione di creatore letterario, non fa che raccontare di sé, un sé multiplo, moltiplicato, “plurale come l’universo”. Nel formare la sua celebre galassia eteronimica Pessoa dà vita a ventiquattro individualità differenti, con vite, inclinazioni, idee, stili di scrittura diversi e caratterizzati, ventiquattro vite vissute e narrate dal Fernando Pessoa reale, che a tratti sembra anche lui essere uno dei tanti personaggi cui il suo animo ha dato vita. Dal primo eteronimo, quello Chevalier de Pas nato nell’infanzia sudafricana dell’autore, al più completo e dirompente Alvaro de Campos, che lo accompagnerà fino alla morte spegnendosi con lui, Pessoa costruisce un romanzo della sua stessa coscienza “moltiplicata per sentirsi”, in cui i personaggi fittizi dialogano fra di loro, intrattengono rapporti e dispute letterarie sui giornali, interferiscono financo con la materiale esistenza del Fernando Pessoa reale, come testimoniato dal carteggio che il Poeta ha avuto con la fidanzata Ophelia Queiroz, in cui l’ingegnere navale Campos e l’enigmista A.A. Crosse sono indicati come persone in carne ed ossa.

Louis-Ferdinand Céline ha una prospettiva radicalmente opposta, si direbbe: l’intera opera letteraria dello scrittore francese, composta da otto romanzi, non è null’altro che il racconto della sua vita, in cui sono descritti senza censure alcune, “gli uomini, le bestie, le città e le cose” che il protagonista incontra nel suo cammino. E se Pessoa è tante persone contemporaneamente, caratteristica dell’opera di Céline è l’unitarietà, basandosi sulla narrazione in prima persona di un unico personaggio, che incontra il Mondo in una esistenza di peregrinazioni attraverso il Novecento. E c’è di più: programmatico in Céline è il porsi da mero cronista, da narratore il più oggettivo possibile di quanto trova lungo il cammino.

Louis-Ferdinand Céline

Louis-Ferdinand Céline

Eppure le due prospettive ad una analisi più accurata possono apparire meno contrastanti, quantomeno complementari. Se Pessoa è un universo di identità, e per primo nel XX secolo introduce le tematiche della coscienza, della sua unitarietà e frammentazione, e del subconscio, così potente in lui da emergere nelle sue contraddizioni nelle varie figure eteronimiche che si danno alla mente dell’autore, e che parla con la voce di Ricardo Reis, Bernardo Soares o di Alberto Caeiro, Céline nella sua apparente monolitica unitarietà è in realtà una matrioska di identità. Infatti adotta una doppia stratificazione di nomi per dar vita alla sua esistenza e alla sua opera: nasce Louis-Ferdinand Destouches, adotta lo pseudonimo di Céline, e attraversa la vita e i suoi romanzi con la maschera del suo personaggio Ferdinand Bardamu, identità che tendono a confondersi e a sovrapporsi. E a ben vedere le due opposte prospettive non sono altro che due differenti punti di partenza per raccontare dello stesso oggetto, ossia della realtà del Mondo nella sua poderosa e accelerata trasformazione novecentesca per come essa viene ricostruita nella percezione della coscienza del singolo, o per come si ripercuote sullo spirito dell’uomo. La creazione della coscienza e del Mondo appaiono infatti intimamente e indissolubilmente legate e si determinano l’un l’altra: l’uomo crea il mondo e il mondo crea l’uomo.

Proprio in apertura del suo lavoro più celebre, Viaggio al termine della notte, Céline dichiara che è tutto immaginato il percorso che ci è dato da vivere, “nient’altro che un romanzo, una storia fittizia”: nel raccontare da cronista la realtà del mondo, Ferdinand Bardamu non potrà dunque che raccontare di sé, di come interpreta, costruisce e crea quel mondo che andrà ad esplorare fino in fondo, senza tirarsi indietro. E Pessoa d’altro canto, iniziatore di plurime avanguardie, dall’intersezionismo, che indaga proprio della costruzione delle cose del mondo nella intersezione con la coscienza individuale, al sensazionismo, che si propone di “sentire tutto in tutte le maniere”, di esplorare dunque fino in fondo le profondità della coscienza in un percorso che può forse considerarsi di “analisi in versi”, non fa che ricomporre nelle pieghe della sua multipla e frammentata coscienza proprio gli eventi e le cose del mondo per come questa le vive e le sente.

È dunque possibile azzardare una reductio ad unitatem nei due approcci di analisi del reale e dell’uomo, due approcci che sono necessariamente complementari e consustanziali, si completano e si determinano l’un l’altro. Anche il punto di arrivo della riflessione dei due autori può per certi versi considerarsi complementare. Il viaggio letterario ed esistenziale di Céline assume colori sempre più cupi e nichilisti, nel descrivere il mondo da cronista egli perde progressivamente speranza in quanto di buono ci possa essere nelle cose e negli uomini, che hanno sempre meno rilievo, sempre meno significato, sempre meno valore: l’ultimo suo romanzo, Rigodon, avrà una significativa dedica “agli animali”. Anche la traiettoria poetica di Pessoa tocca prospettive nichiliste, inequivocabili nel celebre Libro dell’Inquietudine di Bernardo Soares o nelle ultime poesie firmate da Alvaro de Campos. Il poeta portoghese però va alla ricerca di quel senso che non trova nelle cose del mondo con viaggi nell’occultismo e nell’esoterismo, in una realtà invisibile ad occhi non iniziati, guardando la vita “come un decifratore di sciarade”.

José de Almada Negreiros, “Ritratto di Fernando Pessoa”, 1964. CAM/Fundação Calouste Gulbenkian

José de Almada Negreiros, “Ritratto di Fernando Pessoa”, 1964. CAM/Fundação Calouste Gulbenkian

La realtà insensata delle cose del mondo al termine della rispettiva avventura speculativa e letteraria è comune ad entrambi gli autori, ma Fernando Pessoa compie un passaggio ulteriore, seguendo un percorso di ricerca in una realtà che va oltre quello che si vede, fatta di simboli, miti ed archetipi occulti ed esoterici. Eppure un certo amor mundi era comune ad entrambi gli autori in una certa fase della propria produzione. Nella sua Tabaccheria, firmata da Alvaro de Campos, l’io lirico ha una vertigine tumultuosa nell’esplorare le profondità del suo spirito, delle sue emozioni, dei suoi pensieri, con una tensione che perviene fino ad una spannung che si risolve in un contatto col mondo, attraverso uno sguardo e un sorriso scambiato col padrone di una bottega che, pieno di senso, riporta l’autore ad una certa qual armonia con la realtà esterna.

E alla fine del suo Viaggio al termine della notte, così cupo e tenebroso, ecco che anche Céline trovava che “quel che fa un uomo più grande della sua stessa vita” è “l’amore per le vite degli altri”, un bagliore di luce nelle tenebre di una esistenza che “è reale ed immaginata”.

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Do you know Elena Ferrante? http://www.360giornaleluiss.it/do-you-know-elena-ferrante/ Thu, 13 Oct 2016 10:20:19 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=7209 Chi è Elena Ferrante? A questo interrogativo le risposte sono state molteplici: da chi sosteneva che si trattasse di Goffredo Fofi, fino a puntare il dito verso i fondatori della casa editrice E/O che pubblicano i suoi libri, Sandro Ferri e Sandra Ozzala. La scrittrice sembra essere di origini napoletane, come suggerisce lei stessa nelle

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Chi è Elena Ferrante? A questo interrogativo le risposte sono state molteplici: da chi sosteneva che si trattasse di Goffredo Fofi, fino a puntare il dito verso i fondatori della casa editrice E/O che pubblicano i suoi libri, Sandro Ferri e Sandra Ozzala. La scrittrice sembra essere di origini napoletane, come suggerisce lei stessa nelle piccole e fugaci note biografiche. Su questi dati si sono costruiti percorsi, ipotesi e congetture, ma l’attesa sembra essere finita: (forse) abbiamo un nome.

A darcelo è il giornalista Claudio Gatti: secondo una sua indagine svolta per Il Sole 24 Ore, dietro il nome della Ferrante si nasconde la moglie di Domenico Starnone, Anita Raja. Nella sua analisi, molte sono le prove che portano a ciò, ma l’indizio decisivo proviene da un conto bancario. Ebbene sì, Gatti si è cimentato in quella strategia chiamata ‘follow the money’: attraverso delle tracce bancarie riguardanti il reddito registrato dalla donna, il giornalista è riuscito a scoprire un immenso ricavo ricevuto a ridosso dell’uscita della tetralogia (si parla del 150% in più rispetto all’anno precedente).

La reazione del web è stata enorme: alcuni si rifiutano di crederci, altri vedono finalmente appagata la loro curiosità, e altri ancora hanno creato addirittura un account Twitter di Anita Raja in cui usciva allo scoperto, account dichiarato falso dopo pochi minuti. Anche Erri De Luca si è espresso sulla questione: “Questa sorta d’indagini patrimoniali farebbero bene a svolgerle per stanare gli evasori invece degli autori”, sbuffa De Luca, “credo che se si vuole scrivere mantenendo l’anonimato di fronte al pubblico se ne ha tutto il diritto”.

Tutti sembrano essere interessati alla vera identità del personaggio che si cela dietro il nome di Elena Ferrante. Il successo dei libri a suo nome è mondiale: anche Hillary Clinton, candidata alla presidenza americana, ha dichiarato di star leggendo i suoi libri. Si capisce chiaramente perché molti giornali internazionali hanno pubblicato l’indagine di Gatti: il giornalista italiano ritiene che “il più grande mistero fuori dall’Italia che riguardi l’Italia è l’identità di Elena Ferrante, e io intendo svelarlo. È quello che faccio per vivere”.

Elena Ferrante aveva già risposto a Gatti, ancora prima di conoscerlo: in un’intervista condotta via mail nel 2014 con il New York Times, la scrittrice aveva sostenuto che “ciò che più conta per me è preservare uno spazio creativo” e che “l’assenza strutturale dell’autore influenza la scrittura in un modo che mi piacerebbe continuare a esplorare”.

Di chiunque sia il viso dietro quel nome e dietro tutto quel successo, siamo davvero sicuri di voler svelare un segreto che, in fin dei conti, ci fa solo apprezzare di più la narrativa?

Vogliamo davvero dare un nome a Elena Ferrante, o ci bastano le sue parole e i suoi romanzi?

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