International – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Sun, 18 Feb 2018 20:38:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png International – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 Attacco a Save The Children in Afghanistan http://www.360giornaleluiss.it/savethechildren-attacco-jalalabad/ Wed, 24 Jan 2018 10:00:22 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=9148 Afghanistan, 24 Gennaio- Quest’oggi, alle ore 9 locali (5.30 italiane), a Jalalabad City è stata attaccata la sede dell’ONG “Save The Children”, che, basata a Londra, da oltre novant’anni si occupa di aiutare i bambini in paesi devastati da guerre, insurrezioni e calamità naturali. In Afghanistan, la situazione è sempre più grave, e gli attacchi sempre

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Afghanistan, 24 Gennaio- Quest’oggi, alle ore 9 locali (5.30 italiane), a Jalalabad City è stata attaccata la sede dell’ONG “Save The Children”, che, basata a Londra, da oltre novant’anni si occupa di aiutare i bambini in paesi devastati da guerre, insurrezioni e calamità naturali.

In Afghanistan, la situazione è sempre più grave, e gli attacchi sempre più frequenti. Basti ricordare l’attacco kamikaze al Tabyan Media Center il 28 Dicembre dello scorso anno, dove le vittime furono 40, tutti civili, e ancora, quello più recente, di soli quattro giorni fa, all’Hotel Intercontinental di Kabul, un attacco da parte di un kamikaze e quattro uomini armati che durò ben 17 ore e che fece 43 vittime.

Quello di oggi è solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi che hanno prodotto un elevato numero di vittime civili, ma tra questo e quelli precedenti vi è una sostanziale differenza, infatti, mentre gli altri due attacchi sopra citati sono stati reclamati dall’Isis, in questa occasione l’Emirato Islamico ha, forse onestamente, dichiarato di non aver nulla a che vedere con gli eventi riportati.

Sino ad ora sono due i morti e undici i feriti, ma il bilancio potrebbe crescere, infatti, nonostante la zona sia stata prontamente evacuata, all’interno dell’edificio stesso i militanti sono riusciti a prendere degli ostaggi e si trovano momentaneamente trincerati ai piani alti dell’edificio. Come anche in altre occasioni, per garantirsi l’accesso, gli attaccanti hanno utilizzato un kamikaze, per poi entrare e diffondere il panico. Un testimone- Mohammad Amin- ha raccontato di essere riuscito a fuggire saltando da una finestra, ma prima che ciò accadesse è riuscito a vedere un uomo, all’entrata dell’edificio, che si faceva strada con un lanciarazzi.

Nell’area colpita questa mattina non vi è solo la sede di Save The Children, infatti in vicinanza risiedono anche altre ONG e Uffici Governativi, il che rende possibile pensare che l’agenzia britannica non fosse il sito di interesse, ma essendo l’edificio ancora sotto assedio, le notizie rimangono incerte, come anche il numero di vittime.

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La Cina come una poesia http://www.360giornaleluiss.it/la-cina-come-una-poesia/ Thu, 09 Nov 2017 11:56:10 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=9035 Secondo Henry Kissinger, che peraltro non perde certo l’occasione di ribadirlo – negli ottimi libri che scrive, così come nelle rare interviste che concede – il ventunesimo secolo, questo secolo intenso, contraddittorio, sorprendente, che pare timido soltanto con riguardo alle politiche sociali e che accomuna tutti quelli attualmente in vita, appartiene alla Cina. Quest’ultima starebbe

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Secondo Henry Kissinger, che peraltro non perde certo l’occasione di ribadirlo – negli ottimi libri che scrive, così come nelle rare interviste che concede – il ventunesimo secolo, questo secolo intenso, contraddittorio, sorprendente, che pare timido soltanto con riguardo alle politiche sociali e che accomuna tutti quelli attualmente in vita, appartiene alla Cina.

Quest’ultima starebbe “solo” aspettando, per esercitare tale supremazia, alla quale francamente sembra in un modo o nell’altro destinata, di trovare la sua vera vocazione, di vincere quella gloriosa ed eterna battaglia che porta alla conquista ed al riconoscimento della propria identità autentica, del proprio carattere. Come un essere umano qualsiasi.

Vista cosi, in effetti, se se ne si analizzano i comportamenti, le aspirazioni, i trionfi – sempre di più – e le sconfitte – sempre di meno -, la Cina sembra una cosa più di tutte: desiderosa di evolversi e di migliorare. E, se nel caso, una volta risolte le contraddizioni interne con cui deve fare ancora i conti, di prendersi un ruolo da leader politico-economico nello scenario mondiale.

Per diventare l’alternativa “comunista” al mondo dominante? Forse.

E chissà che questo non sia addirittura auspicabile, semplicemente in virtù di un generale principio di alternanza nella direzione politico-amministrativa di politiche ormai globali. Specialmente adesso, che i dubbi sulla natura dei rapporti tra Asia ed Occidente – partnership o confronto dialettico?-  sembrano essersi risolti in questa seconda direzione e che il sistema capitalista sta evidenziando una debolezza inedita, anche in termini di consenso popolare.

Con questo non voglio certo dire che la Cina sia destinata sicuramente a guidare il resto del modo in una “rivoluzione comunista”. La mia è soltanto un’ipotesi, non una profezia.

Non sto dicendo che, affinché il domani sia migliore dell’oggi, all’idea Repubblicana dovrà seguire per forza l’Idea Comunista.

Ma è un fatto che da quando il capitalismo classico è stato rilanciato dopo il collasso delle forme statali comuniste uscite dalla rivoluzione bolscevica, la Cina ha mantenuto comunque una certa stabilità politica, tanto che i vari Presidenti della Repubblica popolare si sono succeduti ininterrottamente da Mao a Xi Jinping, alla guida del partito dal 14 marzo 2013, rieletto il 25 ottobre di pochi giorni fa e incaricato di governare fino al 2022 almeno.

Ed è un fatto che questa attitudine della Cina a dare il meglio di sé, stia dando i frutti sperati, non solo in ambito economico ma anche in materia di tutela dell’ambiente, tanto per fare un esempio eclatante.

Dopo un periodo di Caos giuridico, che è andato dal 1949 al 1973, ed un periodo di assestamento della normativa e di adeguamento ai parametri internazionali- dal 1989 al 2000- che hanno prodotto i danni che sono sotto gli occhi di tutti, l’amministrazione di Pechino sta affrontando i grandi problemi legati all’inquinamento con risultati sorprendenti, sia sul piano dell’efficienza che su quello dell’efficacia. La Cina, inoltre, ha mostrato un deciso cambio di passo anche a livello internazionale, in occasione della 21° Conferenza quadro sui cambiamenti climatici (COP 21) che si è tenuta a Parigi nel dicembre 2015, quando Pechino ha preso per la prima volta impegni vincolanti sulla riduzione delle emissioni di gas climalteranti ponendosi così fra i paesi guida nel contrasto al cambiamento climatico.

La questione ambientale è sempre più rilevante anche per l’opinione pubblica cinese. Tanto che, tra le poche proteste che si verificano per le strade e nelle piazze della                inquinatissima Beijing, le uniche a non essere represse dalle forze dell’ordine sono proprio quelle che invocano istanze di natura ambientale. Vale la pena di sottolineare anche come negli ultimi decenni, ma già a partire dal 1949, scienza e tecnologia, in Cina, abbiano conosciuto uno sviluppo rapidissimo. Senza contare che, nella guerra per la conquista dell’intelligenza artificiale, i cinesi sono i principali favoriti per una eventuale vittoria. Secondo alcuni, il modello a partito unico che caratterizza l’ex-Impero più vasto del mondo potrebbe essere stato di qualche aiuto nell’attuare politiche tanto incisive in tempi cosi brevi.

E questo è un altro fatto, che il taboo del regime socialista sembra sfatato, anche da noi, in Europa e in Italia. Dove quello cinese, ormai, non è considerato niente di peggio di un modello tra i tanti possibili, di cui riconosciamo pregi e difetti, ma al quale comunque continuiamo a preferire il nostro, quello democratico.

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La felicità: uno standard per rovesciare le prospettive egemoniche http://www.360giornaleluiss.it/la-felicita-come-standard/ Tue, 24 Oct 2017 19:12:43 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8974 Cosa vedi? Quando osservi una cosa, un luogo o una persona, una tempesta di idee invade la tua mente, e per questo motivo ora ti chiedo: cosa vedi? Cosa, come, perché sono i must che ci accompagnano. Se ripetessi la stessa domanda ad un altro e poi un altro ancora la risposta potrebbe, e dico

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Cosa vedi? Quando osservi una cosa, un luogo o una persona, una tempesta di idee invade la tua mente, e per questo motivo ora ti chiedo: cosa vedi?

Cosa, come, perché sono i must che ci accompagnano. Se ripetessi la stessa domanda ad un altro e poi un altro ancora la risposta potrebbe, e dico potrebbe, cambiare. Ça depend.

Tutto sta nella polifonia sgangherata delle nostre idee, nel modo in cui attraversano i nostri occhi e concepiscono il mondo.

La vita di ognuno di noi si attiene ad una certa politica, per così dire, a dei parametri e criteri con cui creiamo giudizi, con cui leggiamo la realtà. Ebbene per la maggior parte dei casi, le persone mantengono questa “lettura” lenta e inesorabile nel proseguo dei giorni, senza mai aprire le finestre di casa a un possibile “secondo me invece”. I contrasti e le differenze esistono, ignorati e spesso discriminati.

La cocciutaggine in ognuno di noi, a seconda delle dosi, ci porta ad avere un’attitudine che riteniamo giusta proprio perché è nostra.

Attualmente esistono anche diplomatici ipocriti che esordiscono con un semplice “non accetto la tua opinione, ma la rispetto” per poi praticare in modo ben diverso.

Verba volant miei cari, non dimentichiamocelo.

Il punto della discussione è: perché comprendere, o addirittura assimilare, una prospettiva differente? Parlando di fini, l’apertura mentale non è in grado di risolvere nell’immediato ogni tipo di problematica. D’altro canto non sarebbe strategicamente utile e funzionale perseguire un’idea che sia chiusa, sigillata, nonché statica. La bellezza sta nella prospettiva, o meglio, nelle prospettive. Molteplici, diverse anche se solo nel dettaglio.

Eppure, spostando anche un solo pezzo del puzzle niente è come prima. Le cose si presentano per come le vuoi vedere tu.

Sei tu il filtro.

Portiamo un esempio pratico: l’immaginario collettivo è solito adottare come “filtro” di benestare nazionale qualcosa che sia misurabile in modo concreto.  GDP, GNI GNP sono alcuni dei tanti acronimi che gli economisti usano in preda al loro delirio di conoscenza assoluta, in base al quale traducono il mondo in termini di status di sviluppo o sotto-sviluppo. Secondo tali standard, tra i paesi più sviluppati troviamo in pole position USA, China e Giappone. Agli antipodi, il database della World Bank classifica Burundi, Bhutan e la (per lo più) deserta Greenland negli ultimi 30 posti per GDP registrato nell’anno 2016.  A questo punto è chiaro pensare che, se ci fosse dato scegliere un altro posto in cui vivere tra i sopra citati, una netta maggioranza si sposterebbe verso la prosperità degli USA, scialacquando blandamente una cosiddetta “vita di stenti” altrove. Eppure il rosso acceso della bandiera americana impallidisce se si introducono variabili del tutto differenti come il GNH. L’acronimo sta per Gross National Happiness, ovvero un corrispettivo del nostro GDP, ma in termini di felicità. Questo strumento è stato ideato nel 1971 dallo stato bhutanese ormai stanco di essere etichettato dal Prodotto Interno Lordo come unico mezzo per la misura del progresso nazionale. Lo stato sostenne che il benessere nel suo significato più vero consiste nella felicità e nella salute sociale, fisica, spirituale e ambientale dei propri cittadini. Così facendo il Bhutan ha rimescolato le carte, mostrando al mondo che c’è di più, basta solo vederlo. Cambiando quell’unico filtro con un altro, la classifica della World Bank sembra essersi rivoluzionata, scoprendo che la corruzione, l’isolamento e la diffidenza della crisi sociale statunitense stanno facendo affondare il colosso dell’economia in un baratro d’infelicità. Ce lo conferma Richard Easterlin, professore di economia presso la University of Southern California. Convenendo con l’indice di GNH bhutanese, Easterlin identifica un paradosso nell’economia moderna americana, sottolineando che il reddito pro capite è aumentato di circa tre volte dal 1960, ma la felicità, al contrario, si mostra pigramente.

In soldoni, la crisi sembra essere arrivata anche qui, di natura sociale s’intende, ma non per questo meno rilevante.

Nel 2011 il nuovo approccio circa la misura del benessere nazionale è stato adottato dall’ONU su richiesta dello stato del Bhutan ed è stato subito condiviso da ben 68 paesi. Attualmente il nuovo standard è oggetto di ricerca al fine di esportare il GNH in tutto il mondo in modo funzionale.

Ciò non significa installare una nuova versione 2.0 del mondo gettando la corrente nel dimenticatoio. Significa imparare a vedere. Cogliere, selezionare e captare il meglio da ogni prospettiva per crescere, trarne vantaggio e non smettere mai di conoscere.

Non siate presuntuosi, piuttosto aprite le finestre e fate entrare un po’ di luce.

 

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L’addio di Trump ad UNESCO: accuse di “anti-Istraelian bias” http://www.360giornaleluiss.it/trump-lascia-unesco/ Sat, 14 Oct 2017 12:55:18 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8945 Correva l’anno 1945 quando la potenza statunitense firmava la costituzione dell’UNESCO. Una firma che comportò un’erogazione di finanziamenti pari quasi a 83 milioni e mezzo di dollari l’anno. Tuttavia queste cifre a 5 zeri sono negate all’UNESCO da ben sei anni, un finanziamento bloccato che oggi sfiora un debito di 500 milioni. Debiti saldati o

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Correva l’anno 1945 quando la potenza statunitense firmava la costituzione dell’UNESCO. Una firma che comportò un’erogazione di finanziamenti pari quasi a 83 milioni e mezzo di dollari l’anno. Tuttavia queste cifre a 5 zeri sono negate all’UNESCO da ben sei anni, un finanziamento bloccato che oggi sfiora un debito di 500 milioni.

Debiti saldati o meno, sono altre le ragioni che hanno portato il Presidente Donald Trump alla decisione di lasciare l’organizzazione.

Ebbene sì, la storia si ripete dopo circa 40 anni dal primo tentativo di Ronald Reagan. In questo caso la miccia ha iniziato a bruciare nel 2011, quando la Palestina è ufficialmente diventata un paese membro. Da quel momento la relazione tra l’istituzione internazionale culturale e gli USA si è incrinata.

Nel Luglio 2017, Unesco dichiara la Città Vecchia di Hebron e la Terra dei Patriarchi ,“siti Palestinesi” del Patrimonio mondiale. In allegato a tal definizione troviamo “in pericolo”, alludendo maliziosamente alla vicinanza con Israele.

Apriti cielo.

L’indignazione degli Israeliani si accompagnò a nuovi sentimenti di ostilità, condivisi con il potente alleato statunitense che osservava amareggiato dalle retrovie.

Il legame polito-economico tra USA e Israele ha radici profonde, non per altro già durante la presidenza di Abram Lincoln si avviarono i primi movimenti sionisti volti a riconoscere una patria per gli ebrei, appoggiati dal presidente stesso. Un vero e proprio “sogno condiviso da molti americani” a detta di Lincoln.

Israele era una nazione amica in un campo minato, un fattore che si rivelò fondamentale durante la Guerra Fredda, quando gli Israeliani elargirono un po’ più di qualche informazione sull’armamentario Sovietico, unito in accordo con le vicine Siria ed Egitto.

La svolta arrivò dopo l’11 settembre 2001, quando la questione musulmana diventò un tabù per gli Stati Uniti:  un argomento impensabile che non poteva prendere forma nemmeno mentalmente, tanta era la paura, tanta era la rabbia.

In quel frangente Israele rimase l’unico stato non-musulmano in quella zolla terrestre.

Nel frattempo, Hamas e Israele si impegnavano da anni in una politica di (auto)distruzione in una “striscia” di arena diventata ormai un’ecatombe, fin quando nel 2008 la man forte israeliana ideò l’operazione Piombo Fuso al fine di terminare questa guerra. A seguito di una presa di posizione troppo marcata, le Nazioni Unite dichiararono che Israele aveva violato i diritti umani del popolo palestinese. Ancora una volta gli Stati Uniti difesero la causa israeliana.

Arrivando ai giorni nostri, l’America accusa l’UNESCO di “anti-Israelian bias”, un attacco pungente rilasciato dall’amministrazione di Trump. Quest’ultima è stata attenta a precisare che la decisione non è avvenuta “nottetempo”, bensì è la reazione ad un sentimento di delusione già ben radicato negli animi della popolazione.

L’acronimo UNESCO sta per “Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura”, un’istituzione che dovrebbe vantare una maturità culturale tale da non lasciare spazio a pregiudizi. A questo proposito è evidente come la potenza americana non sia troppo d’accordo, riconoscendo che forse a renderci uniti c’è solo un’ipocrisia fondante.

Nonostante ciò, l’obbiettivo primo dell’organizzazione continua ad essere un quid fondamentale nella linea politica statunitense, pertanto la confederazione continua ad impegnarsi come “stato osservatore” abbandonando la membership, ma mettendo a disposizione competenze consultive.

Quello compiuto degli Stati Uniti in data 12 Ottobre 2017 è un grande passo- forse addirittura troppo grande- che indica però una forte determinazione a procedere secondo la linea isolazionista da sempre preferita dalla nuova amministrazione.

Questa è solo l’ultima mossa (per ora) di una lunga serie, che potrebbe portare gli Stati Uniti a distaccarsi pesantemente dalla politica filo-liberale adottata dalla maggior parte degli stati a livello mondiale, e che, non bisogna escluderlo, potrebbe portare alla nascita di movimenti più radicalizzati e soprattutto basati su principi completamente diversi da quelli con cui vennero fondate istituzioni come le Nazioni Unite.

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Un passo indietro per milioni di donne: la non più libertà sul “birth-control” http://www.360giornaleluiss.it/8916-2/ Sun, 08 Oct 2017 09:51:20 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8916 Un colpo ai diritti civili e riproduttivi, in nome di una pericolosa nozione di libertà Lo scorso venerdì 6 ottobre l’amministrazione Trump ha inferto un altro duro colpo ai diritti civili delle donne esplicitamente, dei gruppi LGBT per le possibili conseguenze, ed indirettamente di tutti i cittadini potenziali vittime di discriminazione. Il Department of Health

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Un colpo ai diritti civili e riproduttivi, in nome di una pericolosa nozione di libertà

Lo scorso venerdì 6 ottobre l’amministrazione Trump ha inferto un altro duro colpo ai diritti civili delle donne esplicitamente, dei gruppi LGBT per le possibili conseguenze, ed indirettamente di tutti i cittadini potenziali vittime di discriminazione.

Il Department of Health and Human Services ha infatti modificato l’”Affordable Care Act” di Obama al fine di garantire il diritto dei datori di lavoro a negare alle proprie impiegate la copertura dei costi per la contraccezione. Ricordiamo che l’ACA è lo statuto federale facente parte del famoso pacchetto ‘Obamacare’, che dal 2012 obbliga i datori di lavoro a fornire alle lavoratrici delle assicurazioni che coprano interamente i costi per una delle 18 tipologie di birth control approvate dalla Food and Drug Administration. Secondo uno studio commissionato dall’amministrazione Obama, l’ACA ha dato accesso a misure contraccettive sicure a 55 milioni di donne, riducendo per più di metà la spesa media in medicinali, ed ha avuto effetti positivi sulla diseguaglianza di reddito e sul numero di aborti. La giustificazione addotta per questo cambio di regole che limita l’efficacia dell’ACA, sarebbe la libertà religiosa degli employers più “pii”, dal momento che queste nuove regole gli permetteranno di vivere secondo le loro convinzioni religiose.

La mossa è in linea con quanto promesso da Trump nel discorso di Rose Garden dello scorso maggio, quando disse “we will not allow people of faith to be targeted, bullied or silenced anymore” e rientra nella strategia populista che mira a consolidare, estremizzare ed attrarre diversi gruppi sociali – in questo caso i gruppi religiosi. Tra le reazioni più immediate ci sono infatti quella del Predicatore del Wisconsin Paul D. Ryan, che ha definito la giornata di ieri “a landmark day for religious liberty”, e quella delle suore cattoliche Little Sisters of the Poor, che si dicono felici di non essere più forzatamente “morally complicit in grave sin’’.

Allo stesso tempo, si sono subito alzate voci dalla giurisprudenza, che ormai è la più solida opposizione al populismo, tra cui quella dell’Attorney General del Massachusetts, Maura Healey, e dell’Attorney General della California, Xavier Becerra, che hanno denunciato l’incostituzionalità delle nuove regole, dal momento che violano il Primo Emendamento che vieta al governo di agire condizionato da una istituzione religiosa.

La cosa più grave di questo cambiamento, è che è solo la prima conseguenza di una mossa ben più grave avvenuta lo scorso giovedì. Il Dipartimento di Giustizia ha dato una nuova interpretazione al divieto di discriminazione sul lavoro in base all’identità sessuale contenuta nel Civil Rights Act del 1964: il governo può ora limitare il libero esercizio della religione solo se per una ‘compelling reason’ e nel modo meno invasivo possibile. Questa interpretazione asseconda i gruppi conservatori che per anni hanno manifestato in nome della loro libertà di assumere e licenziare discriminando in base all’ identità sessuale ed etnica dei lavoratori, pretendendo che tale libertà rientrasse nel diritto all’esercizio di fede religiosa.

Mettendo da parte l’incostituzionalità delle nuove regole per l’ACA e di questa nova interpretazione del Civil Rights Act del 1964, che non ho gli strumenti per giudicare, ritengo queste due azioni un pericolosissimo cambiamento sul piano filosofico. L’indebolimento dell’ACA, che renderà meno scontato l’accesso ai servizi di contraccezione, non soltanto indebolirà i diritti riproduttivi di molte donne – presumibilmente di classi sociali più svantaggiate – ma depoliticizzerà ancora una volta il concetto di sessualità, annullando i progressi del movimento femminista prima e LGBT poi. Il più grande successo di tali movimenti infatti è stato l’essere riusciti a politicizzare, persino per l’opinione comune, la sessualità e l’identità sessuale.

In filosofia, “politicizzare qualcosa” significa sottrarlo al dominio della natura, smettere di considerarlo come naturalmente dato ed immutabilmente condizionato dai meccanismi naturali, e renderlo oggetto di scelta individuale, un costrutto socialmente modificabile. La battaglia femminista per la contraccezione ha politicizzato la sessualità perché ha reso comune l’idea che la riproduzione possa essere oggetto di scelta, controllata e pianificata; il movimento LGBT si batte ancora affinché l’identità sessuale sia percepita dall’opinione comune come una costruzione sociale che l’individuo può sentirsi libero di modificare. Assecondare tramite la promulgazione di leggi più restrittive chi crede che il birth control sia innaturale, a mio parere non significa garantire la sua libertà religiosa, che non sarebbe in alcun modo toccata dalle scelte individuali altrui, ma significa solo annullare il progresso filosofico e sociale degli ultimi 60 anni.

La nuova interpretazione del Civil Right Act offre invece una concezione molto pericolosa di libertà: la libertà di soddisfare una preferenza individuale che concerne un altro individuo. Una legge emanata da un sistema liberale non dovrebbe mai consentire ciò, perché dovrebbe escludere dalla propria lista di diritti quelli che si esercitano su terzi. Consentirlo infatti, aprirebbe la strada a qualsiasi discriminazione purché coerente con la libertà del gruppo sociale che si sceglie di privilegiare.

Mi auguro dunque che gli strumenti giuridici a disposizione blocchino questo processo di arretramento, le cui vittime sono le idee per cui tante persone si sono battute prima, e le persone stesse poi.

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UNA CANZONE PER I MORTI: STRAGE A LAS VEGAS http://www.360giornaleluiss.it/8904-2/ Wed, 04 Oct 2017 13:32:12 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8904 LA STRAGE A LAS VEGAS: Con 59 vittime e 537 feriti, Stephen Paddock, 64 anni, scrive il più sanguinoso dei capitoli delle sparatorie negli Stati Uniti d’America compiendo una vera e propria strage in pochi minuti. Alle 20:08 ora locale, Paddock apre il fuoco dalla sua camera d’hotel su migliaia di spettatori posizionati davanti al

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LA STRAGE A LAS VEGAS:

Con 59 vittime e 537 feriti, Stephen Paddock, 64 anni, scrive il più sanguinoso dei capitoli delle sparatorie negli Stati Uniti d’America compiendo una vera e propria strage in pochi minuti.

Alle 20:08 ora locale, Paddock apre il fuoco dalla sua camera d’hotel su migliaia di spettatori posizionati davanti al Mandalay Bay Resort e Casino a Las Vegas, per un concerto country. Dai video delle persone presenti al concerto si capisce che la folla fa fatica a distinguere i colpi delle mitragliatrici semi-automatiche dal fragore della chitarra di Jason Aldean. In pochi secondi, però, si scatena il caos. Le persone cominciano a correre in preda al panico. Persino il performer Aldean corre via, ed è allora che si capisce che non si trattava di urla di gioia, ma di qualcosa di molto più serio.

C’è chi si butta a terra quando i colpi si fanno più intensi, c’è chi, più coraggioso, corre via quando i colpi si fermano. L’adrenalina sale, il sudore e il sangue appestano l’aria, e per 10 o 15 minuti il fragore delle carabine non si ferma se non per ricaricare.

E’ stato soltanto dopo una ventina di minuti che gli SWAT sono entrati nella suite 32135 trovando un agente della sicurezza e Paddock morti, anche se si crede che il killer fosse stato ancora vivo quando i primi agenti di polizia identificarono la sua stanza, come quella in cui si trovava lo sparatore.

 

CHI ERA PADDOCK 

Paddock era “un normale vicino di casa”, asseriscono i suoi vicini nella comunità per anziani a 160 km da Las Vegas, Nevada. I suoi hobby erano il golf, giocare al casinò e, coincidenza nefasta del destino, andare a concerti di musica country. Paddock non conobbe suo padre da bambino: sua madre gli aveva detto che era morto, mentre in realtà era in prigione da quando il figlio aveva 8 anni. Il padre era infatti un pregiudicato ed è stato per molto tempo ricercato dall’FBI per essere evaso dalla prigione federale di La Tula, Texas. Paddock, per quanto sappiamo ad ora, non ha mai avuto contatti con il padre, e amici e parenti lo descrivono come una persona “normale, tranquilla”. In un’intervista alla CBS il fratello, Eric Paddock, disse che Stephen non era per niente un fanatico delle armi. L’arsenale di 23 armi da fuoco ritrovato dalla polizia nella suite del Mandalay, però, risulta essere in forte contrasto con la storia di Eric. I fucili e le pistole furono comprate solo pochi giorni prima della strage. Delle armi, molte erano state automatizzate e molti dei fucili erano dotati di mirini telescopici da cecchino. Nella sua macchina sono inoltre stati ritrovati diversi etti di nitrato d’ammonio, un composto utilizzato per creare esplosivi. Stephen ha pernottato al Mandalay dal 28 Settembre, e nessuno, neppure le donne delle pulizie incaricate del suo piano d’hotel, avevano trovato nulla che facesse presagire all’imminente tragedia. Resta quindi il dubbio di come Paddock, tranquillo pensionato, abbia potuto comprare un arsenale tale da fare invidia agli Spetsnaz Russi ed utilizzarlo contro una folla ignara.

Cos’ha fatto scattare la molla?

 

PRESUNTA AFFILIAZIONE ISIS o L’ENNESIMO PAZZO?

Il New York Times dice : “Amaq, l’agenzia di cronaca dell’ISIS, dichiara che Paddock abbia risposto alla richiesta del gruppo di colpire i paesi della coalizione. La frase fa riferimento ad un famosa dichiarazione del 2014 di Abu Muhammad al-Adnani, un precedente portavoce dello Stato islamico, che chiedeva ai simpatizzanti nel mondo di portare a termine violenza nel nome del gruppo sulla terra di coloro che combattono contro l’ISIS.”

Amaq dichiara anche che Paddock si sia convertito all’Islam mesi prima della strage.

L’FBI dichiara tutto il contrario, prediligendo l’ipotesi che Paddock sia in effetti un lupo solitario, definendo ancora ignoto il motivo dell’eccidio. E’ quindi ancora da definire la situazione che vede l’ISIS in cerca di massacri da dichiarare propri, i servizi di sicurezza americani in crisi e le reali motivazioni che hanno portato Paddock a compiere la strage, sconosciute anche ai suoi familiari.

 

LA REAZIONE DI TRUMP

In America e nel resto del mondo, ci si sta chiedendo se il Presidente Trump abbia risposto con la dovuta forza. Il suo discorso viene definito quasi simpatizzante nei confronti dell’assaltatore. C’è da dire che non ha risposto nel modo in cui ci si aspettava rispondesse lui, con toni gravi ed aggressivi contro un de-facto terrorista. Ma Trump ha comunque voluto “dare a Cesare quel che è di Cesare”, e parlando dell’accaduto, ha utilizzato l’aggettivo “pure evil”, congratulandosi poi con le forze dell’ordine e i medici di soccorso per il loro pronto intervento, definendoli un “miracolo”. Ha infine stressato l’importanza di questo rapido intervento che ha arginato un evento già di per se grave, ma che avrebbe potuto avere una portata molto superiore in termini di vittime.

E’ forse interessante notare come il neo-Presidente degli Stati Uniti non abbia menzionato il fatto che Paddock avesse un vero assetto militare di armi da guerra automatiche, non entrando quindi nel dibattito sulla facilità d’acquisto delle armi che proprio in questi giorni sta dividendo il suo Paese. Ed in effetti come potrebbe? Ha le mani legate. Infatti, la famigerata NRA (National Rifle Association), ha sostenuto Trump durante la sua nomination repubblicana e la sua nomina a presidente. Trump non può quindi voltargli le spalle, come Obama prima di lui, per far notare al pubblico d’America la facilità con cui un pensionato del Nevada con evidenti problemi psichiatrici, abbia potuto armarsi di 23 fucili automatici. Ad ogni modo, viste le ideologie del Presidente, egli non sembrerebbe comunque intenzionato a schierarsi dalla parte del suo predecessore, avendo sempre apertamente sostenuto la legalità del porto d’armi per il singolo cittadino.

Viene infine la parte in cui ogni scrittore di cronaca va a porsi delle domande cruciali seppur brevi:

Poteva essere fermato in tempo? Cosa causa in un uomo tanto odio da puntare un fucile su una folla inerme di compatrioti? La NRA ha colpa per ciò che è successo? E se sì, perché in America non vi sono restrizioni più limitanti nei confronti delle armi che un normale cittadino può acquistare? Il Presidente poteva essere più duro, o si è dimostrato all’altezza?

L’America resta divisa e in lacrime davanti ad una catastrofe che più e più volte si è abbattuta sul suo suolo, e le domande qui menzionate saranno oggetto di acceso dibattito e forse troveranno risposta, ma più probabilmente secondo chi scrive, resteranno scritte nell’angolo più remoto di un taccuino impolverato, senza trovare mai una risposta concreta.

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Leggere tra le righe- Le “riforme” dell’Arabia Saudita e le loro controversie http://www.360giornaleluiss.it/8875-2/ Wed, 27 Sep 2017 11:22:45 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8875 Ieri, Re Salman, dell’Arabia Saudita ha sollevato il “ban” che vedeva l’Arabia Saudita come unico paese al mondo a proibire alle donne di poter conseguire la patente di guida. Non vi è alcun bisogno di dire quanto questa notizia abbia sollevato l’umore internazionale. Infatti, dopo notizie sempre meno incoraggianti che vedono la Corea del Nord

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Ieri, Re Salman, dell’Arabia Saudita ha sollevato il “ban” che vedeva l’Arabia Saudita come unico paese al mondo a proibire alle donne di poter conseguire la patente di guida. Non vi è alcun bisogno di dire quanto questa notizia abbia sollevato l’umore internazionale. Infatti, dopo notizie sempre meno incoraggianti che vedono la Corea del Nord come antagonista mondiale della democrazia, questa riforma si presenta non solo come un grande passo verso la parità dei generi anche nei paesi islamici, ma soprattutto come un incoraggiante passo verso la democratizzazione di quei paesi che fino a pochi anni fa sentivamo come culturalmente opposti, specialmente per il loro livello di disparità di genere.

Nel caso specifico, l’Arabia Saudita ha iniziato soltanto 10 anni fa ad apportare delle riforme che precedentemente erano state ritenute impensabili, e la possibilità di avere la patente di guida è solo l’ultima di una lunga serie.

Questo è ciò che oggi ci dicono i giornali, dalla BBC alla CNN, al New York Times; si parla di “positive step towards promoting women’s rights”, “great step in the right direction” e “right culmination after years of activism”, ma come ogni notizia, anche questa è “double-sided” e a noi viene data a vedere solo la sua parte migliore, la più rassicurante, nonché quella che meglio promuove l’immagine di questo paese che era rimasto l’ultimo al mondo a non permettere alle donne di guidare un mezzo autonomamente.

Ma le testate giornalistiche, forse sottovalutando le parole di chi parla, forse coscienziosamente tentando di celare la verità più scoraggiante, riportano tra le righe una citazione proveniente direttamente dal testo redatto dal Re, che riferendosi alla nuova legge, sottolinea come essa dovrà “essere applicata aderendo agli standard specifici della Shariah”. Nessuno ci spiega cosa esattamente questa frase voglia significare, e anche ricercando più specificamente su internet, non viene reso chiaro come la Shariah possa limitare la nuova legge. Quindi, per valutare quali potrebbero essere le effettive conseguenze di questa improvvisa riforma che rappresenta un effettivo passo verso la parità di genere, ho deciso di analizzare l’impatto che le riforme precedenti, sempre di stampo democratico, hanno avuto sulla popolazione femminile nel corso degli anni.

Un esempio piuttosto lampante viene dal diritto di voto concesso alle donne tramite decreto nel 2011 e venuto a compiersi con la prima effettiva consultazione a suffragio universale nel 2015. Secondo il decreto promulgato dal Re Abdullah bin-Abdelaziz, le donne non solo avrebbero potuto votare, ma anche essere elette nei Consigli Comunali. La verità dei fatti è però ben diversa da ciò che pensavamo quando abbiamo esultato alla notizia dell’estensione del diritto di voto e di elezione. Infatti, come ogni legge, anche questa ha dovuto “essere applicata aderendo agli standard specifici della Shariah”, il che vuol dire che non è stato possibile usare le foto delle donne per la campagna elettorale, che alle candidate è stato impedito di parlare ad un pubblico misto, che una separazione totale dei sessi è stata imposta durante la campagna elettorale e soprattutto, che molto donne hanno dovuto affrontare molteplici ostacoli connessi al “male guardianship system” quando sono andate a votare. Infatti, per poter votare bisogna avere la cittadinanza e una residenza, ed entrambi i requisiti sono contenuti in documenti che una donna non ha diritto di custodire per se stessa. Le case, come anche gli oggetti mobili e immobili non vengono intestate alle donne, e tutto ciò che le riguarda viene amministrato dall’uomo che ne detiene la custodia. Questo implica che se anche la donna volesse votare, dovrebbe richiedere i propri documenti al marito, al padre o al fratello, che spesso, avendone pieno diritto, deciderà di negarle di poterli portare con se in sede di votazione.

Chi ha avuto il coraggio di esprimersi liberamente riguardo alle reali conseguenze di queste “riforme”, ha espresso sconforto nel riconoscere che il “male guardianship system” rimane una componente fondamentale nel sistema Saudita, e che questo spesso comporta l’annullamento delle riforme stesse, in quanto queste non possano essere applicate totalmente in conformità con le leggi della Shariah.

Per accorgerci delle reali conseguenze di tali leggi in paesi cosi distanti culturalmente, bisogna “saper leggere tra le righe”, e verificare con un occhio esperto, il cambiamento, a distanza di anni, nelle vite delle persone che avrebbero dovuto accusarlo positivamente.

Come già riportato, questi cambiamenti che vengono spacciati come radicali, stanno avvenendo in realtà in maniera molto lenta, rallentati particolarmente dagli estremisti e coloro che alla volta del secondo decennio del ventunesimo secolo, non vogliono dare spazio ad innovazione e progresso, preferendo arretratezza culturale e disparità dei sessi.

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The world’s most persecuted minority: the Rohingya http://www.360giornaleluiss.it/the-worlds-most-persecuted-minority-the-rohingya/ Thu, 21 Sep 2017 14:22:16 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8858 Among the issues that are being discussed in the 72nd Session of the UN General Assembly, many leaders are addressing the Rohingya refugee crisis that has led to thousands of people being killed and displaced from their State. The Rohingya are a Muslim minority who have lived in the Buddhist Myanmar’s Rakhine State since the

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Among the issues that are being discussed in the 72nd Session of the UN General Assembly, many leaders are addressing the Rohingya refugee crisis that has led to thousands of people being killed and displaced from their State.

The Rohingya are a Muslim minority who have lived in the Buddhist Myanmar’s Rakhine State since the 8th century. They are not considered one of the country’s 135 ethnic groups and in 1982 their citizenship has been denied. Myanmar considers them as illegal immigrants coming from the neighbouring Bangladesh, so they do not have freedom of movement or access to education or employment. They are denied land and property rights and the land on which they live is one of the poorest states in the country, with ghetto-like camps and a lack of basic needs.

Actually, they have always faced discrimination. During the years of the British colonialism, many workers migrated to Myanmar from India and Bangladesh and because Myanmar was considered a province of India, this migration was defined as internal. After the declaration of independence in 1948, the government viewed this migration as illegal and so denied citizenship to many Rohingya, but it allowed those whose families had lived there for at least two generations to apply for identity cards. This situation worsened after the military coup of 1962 and a new citizenship legislation of 1982 rendered them stateless. The country has then struggled to move from a military-controlled junta to a democracy headed by “unofficial” elected leader and Nobel Peace Prize, Aung San Suu Kyi.

In late August, the violence between the Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) and Myanmar’s military exploded and the latter one launched a “clearance operation” to purge Rohingya militants. The UN High Commissioner for Human Rights said the Burma is carrying out a systematic attack on civilians to expel this minority from the Buddhist country and defined this situation as a “textbook example of ethnic cleansing”. Both Amnesty International and Human Rights Watch have published reports that witness human rights abuses by the Myanmar authorities.

Since the violence began, more than 400.000 people have fled to Bangladesh and thousands of women have been beaten and raped by government soldiers. At the beginning, Aung San Suu Kyi, de facto leader of the country, has refused to discuss about this situation. Indeed, she broke her silence only two days ago, with a controversial speech in which she condemns all human rights violations and unlawful violence. She said that she is aware of the “world’s attention” focused on Myanmar and that her government “does not fear international scrutiny.” She also added that “it is possible to visit these areas and ask to those who have stayed why they have not fled, why they have chosen to remain in their villages.” Actually, access to Rakhine State has been restricted to media, human rights groups, and diplomats and even Amnesty International has accused the government of denying aid workers access to the State. The Nobel Peace Prize used the word “Rohingya” in her speech only in relation to the Army (ARSA) and defined them as a terrorist group. Later on, the Rohingya Army released a statement saying that it is obliged to defend and protect the Rohingya community in line with the principle of self-defence and denied its categorisation as a terrorist organization.

In the UNGA, UN Secretary General Guterres asked to Myanmar authorities to “end the military operations, allow unhindered humanitarian access and recognize the right of refugees to return in safety and dignity.” Many other leaders and Nobel Peace Prize laureates, as Malala and Justin Trudeau, are asking to Aung San Suu Kyi to take control of this situation and end the violence against this minority.

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Io non ho vissuto in America http://www.360giornaleluiss.it/non-vissuto-america/ Sun, 04 Jun 2017 13:40:22 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8670 Durante il mio quarto anno di liceo ho avuto il privilegio di partire per “l’anno all’estero”, e oggi vorrei parlare di quell’esperienza di cui non ho ancora mai avuto il coraggio di scrivere per paura di portare alla luce ricordi che forse non ero pronta ad affrontare. Sono stata presa in California da una bellissima

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Durante il mio quarto anno di liceo ho avuto il privilegio di partire per “l’anno all’estero”, e oggi vorrei parlare di quell’esperienza di cui non ho ancora mai avuto il coraggio di scrivere per paura di portare alla luce ricordi che forse non ero pronta ad affrontare. Sono stata presa in California da una bellissima famiglia che mi ha amata come una figlia e che, sin dal primo giorno, ho sentito come mia. La California mi ha dato tanto: mi ha fatto scoprire i miei limiti, che erano molto più estesi di quanto non pensassi, mi ha insegnato che nella vita vera, se vuoi qualcosa “you have to make it happen”, e che a volte bisogna solo guardare i problemi da un altro punto di vista. Parlo di California e non di America non per una questione di velleità, ma perché IO NON HO VISSUTO IN “AMERICA”.

La mia sorellina Amalina, di soli dodici anni al tempo, ma con la lungimiranza di un adulto, mi correggeva sempre dicendomi che io “non stavo vivendo in America, ma bensì in California”.

Non credo di aver mai capito queste parole per davvero. Fino ad oggi.

Oggi, per la prima volta, ho riflettuto sulle sue parole che prima suonavano solo come una frase fatta, un modo di dire, e ho capito che Amalina non voleva intendere che la California fosse migliore del resto, ma solo che non era uguale al resto.

In California ho imparato “l’amore per il diverso”, ho conosciuto persone che in Italia avrei etichettato come “sfigate”, e che in realtà nascondevano un universo dietro la loro stravaganza, ho imparato a rispettare le scelte altrui, anche se diverse dalle mie, e ho imparato che una persona con il colore della pelle, l’aspetto fisico o l’orientamento sessuale diverso dal nostro, è esattamente uguale a noi. Ho imparato a rispettare l’ambiente, e ad amare i nuovi orizzonti, ma soprattutto ho imparato a non giudicare.

La mia “esperienza americana” si è limitata a questo tanto. Ho vissuto per dieci mesi in una bolla magica che nella mia mente ho innalzato a stereotipo dell’intero Paese. Per me l’America era quello: era gioia, era voglia di fare, rispetto e dialogo. Io ho vissuto il mio “American Dream” e per questo mi sono sempre sentita riconoscente verso quel Paese che mi aveva accolta e fatta sua. Ma mi sbagliavo.

In questi mesi mi sono chiesta in che America ho vissuto e oggi, guardando il telegiornale, ho trovato la risposta: io non ho vissuto in America ma in California, che è diverso.

Amalina aveva ragione a correggermi, perché se gli americani hanno scelto Trump come loro presidente, significa che egli ne rappresenta la maggior parte in ogni sua scelta, e ogni sua scelta va nella direzione opposta rispetto all’educazione che la mia mamma americana mia ha dato.

Sono mesi che Trump porta il suo Paese sempre più lontano da quella che era la mia America, ma oggi il passo è stato decisivo. Oggi egli ha confermato quello che tutti temevamo e, con la sua innata faccia di bronzo, ha annunciato che ha intenzione di ritirarsi dai Trattati di Parigi, portando il secondo Paese più grande del mondo a poter contribuire, senza regole né limiti, al riscaldamento globale. Quello stesso fenomeno che, d’altronde, Trump ha definito “un’invenzione dei cinesi per ostacolare le industrie americane concorrenti” e che quindi risulta, agli occhi di un’America ignorante e inibita, una grande bugia alla quale tutto il resto del mondo ha creduto.

Non sono bastate le proteste, non gli slogan, e neanche Macron che rivisita la grande massima Trumpiana: “Let’s make America great again” riportando su tutti i canali nazionali “Let’s make the world great again”. Ogni sforzo è stato vano, perché Trump, di fatto, può, e può perché quella stessa popolazione che a breve soccomberà sotto una politica ultra-protezionista ed individualista, lo ha eletto.

Dove ho vissuto io i musulmani, gli hindi, i cristiani e i mormoni erano la stessa cosa, e quando uno studente faceva “outing” gli si stava vicino, ma poi neanche troppo, perché è una scelta come un’altra e nessuno sentiva il bisogno di farne un dilemma. Dove vivevo io i ricchi si vestivano come i meno ricchi, frequentavano gli stessi posti e uscivano con le stesse persone, tutti facevano la raccolta differenziata e ogni membro della comunità provvedeva al sostentamento della stessa, indipendentemente da orientamento sessuale o religioso, dal sesso o dalla classe sociale di provenienza.

Dove vivevo io, il giorno in cui è stato approvato il matrimonio per le coppie gay, la città si è fermata e la gente si è riversata in strada tra baci abbracci e urla di gioia.

Dunque se questa è l’America, io non ho vissuto in America e, di questo, rimarrò per sempre delusa.

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Globalismo e sovranità: quali sono le opzioni politiche per l’Italia del futuro? http://www.360giornaleluiss.it/globalismo-sovranita-quali-le-opzioni-politiche-litalia-del-futuro/ Wed, 10 May 2017 11:27:18 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=8633 Globalità, globalizzazione, liquidità. Sono queste le categorie che tratteggiano le moderne collettività e che rappresentano ciascuno di noi, se vogliamo, anche da vicinissimo, nelle singole società cui siamo chiamati a partecipare. C’è stato perfino chi, come il giornalista Marcello Veneziani, ha definito il sistema globalitario una ‘fusione tra liberismo economico e visione del mondo politicamente

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Globalità, globalizzazione, liquidità. Sono queste le categorie che tratteggiano le moderne collettività e che rappresentano ciascuno di noi, se vogliamo, anche da vicinissimo, nelle singole società cui siamo chiamati a partecipare. C’è stato perfino chi, come il giornalista Marcello Veneziani, ha definito il sistema globalitario una ‘fusione tra liberismo economico e visione del mondo politicamente corretta’. E forse forse, non ha tutti i torti. 

La sua diagnosi politica si incentra sulla considerazione che l’unico elemento di novità negli ultimi vent’anni è l’apparizione del tanto noto, e ormai anche un bel po’ mainstream, ‘populismo’. Con questo termine, con cui si sottende il richiamo quasi emotivo ad una sovranità identitaria, economica, in un certo senso anche culturale, si indicano movimenti anche diversi in tutto l’Occidente, che però hanno in comune il fatto di essere una risposta, seppur con alcuni risvolti dalle sfumature negative, al fenomeno della globalizzazione. Quest’ultima è stata, da una parte, la conseguenza della crescita del capitalismo e della teconologia, e dall’altra si configura soprattutto come una cultura che costituisce il supporto di tale fenomeno tecnico – economico. Una cultura che potremmo definire, con un neologismo, ‘globalitaria’.

Veneziani però parla di ‘globalitarismo’ per l’assonanza che tale termine ha con ‘totalitarismo’. Si tratta di una cultura di derivazione radical – progressista e che si esprime oggi nel canone del politicamente corretto. Il liberismo economico attuale ha sposato infatti una cultura di provenienza progressista che si applica alla famiglia, alla società, una ‘cultura – se vogliamo azzardare un’espressione tutto sommato calzante – dello sconfinamento’: non esistono più confini fra popoli, territori, sessi. Tutto è oggetto, in questa visione, di un mutamento perenne. E proprio questo sistema globalitario ha prodotto una reazione da parte dei popoli; molto velocemente si è perso il senso del limite, della natura, così come la necessità di fare riferimento a un contesto comunitario (la città, la patria, la civiltà europea). Tutto ciò è stato negli ultimi anni completamente destrutturato da una visione globalitaria ed allo stesso tempo individualista. Ogni individuo, sentendosi libero di riconoscersi nella categoria che più gli aggrada, perde il senso di appartenenza a quella originaria.

Il populismo non può dunque essere ridotto ad una sempliciotta rivolta del popolo contro le élites, e rappresenta, in senso più pertinente, una messa in discussione di questo modello culturale dominante.

La sovranità d’altro canto, e in tale contesto, è divenuta un elemento di battaglia politica: tutto ciò che si considerava quasi come un elemento residuale del passato, è divenuto al contrario il motore trainante di questa reazione. L’establishment vede questo fenomeno soltanto attraverso la chiave dell’allarmismo, della paura o dell’imbarbarimento: anche a livello informativo, si sostiene che il populismo è alimentato dalle cosiddette ‘post – verità’, o fake news, che dir si voglia, ossia dalle dicerie elevate a notizia attraverso l’uso della rete. Se tuttavia è fuor di dubbio che Internet si caratterizza spesso per volgarità e pressapochismo, secondo Veneziani è importante evidenziare un fatto fondamentale: queste ‘post – verità’ nascono come reazione a precise ‘pre – falsità’, e cioè alle falsità pregiudiziali e quasi programmatiche costruite dalla grande fucina del consenso mediatico che, attraverso il codice ideologico del politicamente corretto, impone un canone su ciò che si può e che non si può dire.

Su quali fronti può crescere l’idea di sovranità? Sostanzialmente se ne ravvisano quattro. Innanzitutto quello strettamente politico: tra l’assetto contabile degli Stati e la vita reale dei popoli, il populismo propende per la seconda e individua nella sovranità nazionale la cifra da cui ripartire. Il secondo elemento è il senso del confine, visto non soltanto come ‘muro’ (come vorrebbe il politicamente corretto) bensì come linea di frontiera dove è perfino possibile l’incontro con l’altro. Il confine, in questo senso, è la garanzia dell’identità dei popoli ed il necessario accompagnamento della sovranità politica. Il terzo elemento è la protezione degli interessi economici locali e nazionali, che non vuol dire protezionismo in quel suo senso ormai desueto, quanto più fisiologica necessità di difendere un sistema produttivo attraverso il rimpatrio di capitali e risorse umane e, quando occorre, attraverso una limitazione di un atteggiamento invasivo di altri soggetti. Il quarto elemento insito nella domanda politica del populismo è la ripresa del tema della famiglia, che accomuna quasi tutti i movimenti. Si tratta, anche qui, di un ritorno alla realtà: la convenzione non è una convenzione cristiano – borghese, bensì, solidamente e schiettamente, l’architrave naturale su cui si è fondata nella storia ogni società ed ogni civiltà.

Andando oltre però quella che può sembrare una fredda elencazione di punti, o un vademecum, quasi, da seguire per vivere bene in società, occorrerebbe davvero formare una nuova classe dirigente improntata allo spirito di servizio, soprattutto come banco di prova dei movimenti populisti che al momento rimangono troppo ancorati ad una dimensione di critica e di raccolta delle istanze sociali.

Ieri si festeggiava l’Europa Day, una giornata che avrebbe dovuto rappresentare l’Unione dei popoli liberi e finalmente eguali e di cui la dichiarazione Schumann, pronunciata all’indomani della seconda guerra mondiale e di cui ieri celebravamo l’anniversario, ben rappresenterebbe la missione dell’Unione Europea: ‘Una testimonianza di grande coraggio politico e una lezione che a distanza di 67 anni, mantiene intatta la sua forza visionaria’, così nelle parole di Aldo Patriciello, europarlamentare molisano e membro del Gruppo Ppe al Parlamento Europeo.
Ed intanto il misterioso artista di strada Bansky dipinge un operaio che rimuove una stella dalla bandiera Ue: la Brexit pochi mesi or sono dalle elezioni presidenziali francesi, dove la vittoria è stata segnata dalla svolta europeista di Emmanuel Macron.

Qual è, allora, il vero simbolo del nostro tempo?


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