LUNGOMAFIA OSTIA BEACH: L’ULTIMO INDIRIZZO DI MAFIA CAPITALE

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Lungomafia Ostia beach. Io lo chiamo cosí, il nuovo filone d’inchiesta che negli ultimi giorni pare agganciarsi con sconcertante prepotenza ai fatti dell’ormai arcinota cricca d’affaire capitolino, Mafia Capitale: una fitta maglia di relazioni intrisa di malaffare e criminalità che tra i suoi capi e promotori annovera, senza neanche troppa vergogna, i nomi di noti politici e appaltatori locali, cooperative sociali ed imprese edilizie.
Su Ostia, X Municipio di Roma, grava infatti il rischio dello scioglimento per mafia come previsto dall’art. 146 del Testo Unico sugli Enti Locali, e come non esclude Alfonso Sabella, Assessore alla Legalità del Comune di Roma, Commissario ad interim incaricato dal Sindaco Ignazio Marino, che in conseguenza dello scioglimento potrebbe essere sostituito da un viceprefetto o addirittura da una commissione speciale.
Lo ha consigliato il Prefetto Gabrielli, come da prassi, al Ministero degli Interni, in una relazione che attualmente riposa indisturbata sulla scrivania di Angelino Alfano.
Lo scopo dovrebbe essere così quello di ripulire la sabbia sporca dei romani, perché di sabbia si tratta.
Da anni su quel territorio bruciano infatti improvvisamente negozi e capannoni, stabilimenti e licenze balneari, archiviate nell’Ufficio Ambiente nel bel mezzo di una pineta, per esempio, ridotta in cenere nel lontano 2003.
Si trattava con ogni probabilità di incendi di natura dolosa, e come accertato in più di un caso, a scopo intimidatorio o vendicativo.
Per la gente comune, questa è la mafia che incendia.
Ma al di là dei fatti contingenti, quello che davvero non desta più ad oggi alcuno stupore, è che sono sempre gli stessi nomi a ritornare, gli stessi della inchiesta “Nuova Alba” di qualche anno fa, quando gli inquirenti portarono alla luce del sole il giro d’affari che sul litorale laziale detengono le famiglie Fasciani, Triassi e Spada.
Nomi che oggi si prestano, ancora una volta appunto, a ricostruire con maggior compiutezza e dovizia di particolari, l’effettiva estensione del raggio di corruzione in mano agli uomini di Mafia Capitale, di cui Salvatore Buzzi ed Andrea Carminati sono, a quanto pare, solo la punta d’iceberg.
Lo sa bene Federica Angeli, giornalista de “La Repubblica”, che ad oggi vive sotto scorta da quando la sua penna, all’incirca negli anni dell’inchiesta Nuova Alba, che travolse anche il municipio di Ostia, denunciò i rapporti di forza e favoritismo tra burocrazia, politica locale e gestori balneari lungo il litorale romano, tra famiglie che, di comune accordo, si spartiscono il controllo delle attività edilizie e balneari nelle spiagge.
Allora la sua attività le costò non poche minacce ed anche qualche denuncia per diffamazione da parte di persone di cui negli ultimi mesi, la Procura di Roma ha disposto senza esitazione l’arresto preventivo, stringendo tra le mani fascicoli che finalmente provano quello che ad oggi costa a Federica Angeli una scorta.
Si tratta di Mauro Balini, titolare della società che gestisce quasi per intero il porto turistico di Ostia.
Ma è proprio alla luce dei recenti fatti di cronaca che emerge spontanea una riflessione: quello che accade a Roma oggi è davvero un emblematico spaccato della politica nazionale, di una politica che prona si inginocchia a cosche ed imprenditori corrotti, re di terra e di mare, incontrastati ed incontrastabili gestori di partiti ed interessi nazionali, dalle prostitute all’immigrazione, e adesso anche di stabilimenti e concessioni balneari?
Forse sì.
A Roma, in ogni angolo di ogni municipio, la politica si perde. Proprio come in Italia.
Si perde nelle amministrative i cui candidati, sprezzanti del contatto con un territorio vasto e dispersivo, decidono di “vincere facile” barattando voti con chi si presta per loro a stare più vicino alla gente, o addirittura organizzando sistemi di finti tesseramenti per sbaragliare i concorrenti alle primarie, uno a caso Andrea Tassone (PD) ex presidente del Municipio di Ostia, guarda caso dimissionario, anche se c’é chi dice cacciato dal suo stesso partito, ad appena un mese dall’arrivo degli arresti domiciliari.
Il voto di scambio é in poche parole qui da noi più prassi che reato, e il sistema Mafia Capitale, quanto meno nella sua componente politica, ne é solo la lampante dimostrazione.
In questo senso, la sabbia viene solo dopo.
Tutto questo ha un nome ben preciso: corruzione.
E chi ha paura di chiamarla mafia non sfugge comunque alla drammatica constatazione di un sistema politico ormai incancrenito a tutti i livelli di governo, a cominciare e soprattutto da quello locale.
Forse anche per questo ad oggi ognuno di noi è chiamato ad intervenire come cittadino di un Italia perduta.
Non per farsi giustizia, appannaggio esclusivo delle aule di tribunale, ma per riprenderci le tanto decantate trasparenza e correttezza della politica, quand’anche intesa come mero sistema di raccolta, sana stavolta, di voti e consenso; quand’anche in ultimo finalizzata al libero esercizio di un’attività commerciale, o alla concessione di qualche metro di spiaggia.
È un fatto che le recenti inchieste sulla criminalità organizzata presente nella città di Roma stanno stanando un sistema che ha vissuto e vive di connivenze e favoritismi, di silenzi più o meno comprati, in primis dalla politica, e ad ogni livello.
Perché come afferma Salvatore Buzzi, titolare della cooperativa 29 Giugno, stracoinvolto nelle indagini, in una delle intercettazioni già all’attenzione degli inquirenti, “una mano lava l’altra e due lavano il viso…so tutti corrotti…”.
Il sistema di Mafia Capitale dilaga e intacca temi di rilevanza inevitabilmente nazionale, come la lecita concorrenza tra imprese, i reati della PA, l’immigrazione, le società di controllo di porti e aeroporti, i sistemi interni di partito.
E se in un paese dove la nostra “x” su una scheda elettorale ci appare ormai così effimera ed ininfluente, tradita alla prima buona occasione che si presta a farsi acciuffare dalla nostra preferenza; se la vera rivoluzione, come dice la giornalista Federica Angeli, dovrebbe essere proprio quella di urlare che la mafia c’è ed è ben più diffusa dei tempi delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio, è chiaro che il lavoro degli inquirenti e i ddl anti-corruzione, la rabbia della politica a 5stelle o lo pseudorazzismo di Matteo Salvini, non bastano più.
Forse l’unico vero intervento possibile oggi è accordare la propria ambizione professionale, qualsiasi essa sia, alla lotta contro tutto ciò che rende ancora una volta l’Italia un paese che si perde, perché la professionalità e la formazione della classe dirigente di domani non rimangano solo belle parole da sventolare su un manifesto pubblicitario, ma sposino la piena consapevolezza di quello che desideriamo lasciarci alle spalle oggi.
Per non lasciare che di questo Paese rimangano solo cricche e paragoni alla corruzione negli stati sudamericani, per non lasciare l’Italia di domani in pasto ai maiali.