Sconfinare – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it Sun, 18 Feb 2018 20:38:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.8.2 http://www.360giornaleluiss.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/02/cropped-300px-32x32.png Sconfinare – 360°- il giornale con l'università intorno http://www.360giornaleluiss.it 32 32 97588499 L’Egitto di al-Sisi tra crisi interna e pressione internazionale http://www.360giornaleluiss.it/legitto-di-al-sisi-tra-crisi-interna-e-pressione-internazionale/ Wed, 20 Apr 2016 15:29:06 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6417 “Ciò che avviene in Egitto è un tentativo di spaccare le istituzioni dello Stato, istituzione dopo istituzione”, così il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi  ha commentato le manifestazioni contro il suo governo di venerdì 15 aprile 2016. Allo stesso tempo, sul piano  internazionale, il regime è sottoposto a una pressione politica e mediatica sulla tutela

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“Ciò che avviene in Egitto è un tentativo di spaccare le istituzioni dello Stato, istituzione dopo istituzione”, così il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi  ha commentato le manifestazioni contro il suo governo di venerdì 15 aprile 2016. Allo stesso tempo, sul piano  internazionale, il regime è sottoposto a una pressione politica e mediatica sulla tutela dei diritti umani, una sgradita visibilità  internazionale innescata dal caso Regeni.

A cinque anni dalla caduta di Hosni Mubarak, il regime militare di al-Sisi affronta la sua prima vera crisi, enfatizzata agli occhi italiani ed europei dal clamore seguito alla morte del giovane dottorando di Cambridge. La manifestazione di venerdì, infatti, è stata la prima non autorizzata dal governo dal gennaio 2011, e l’ampiezza del fronte sceso in piazza per la protesta evidenzia le crepe nel consenso popolare di al-Sisi: oltre all’opposizione liberale moderata, la cui voce è tanto gradita dagli occidentali che spesso ne fraintendono le dimensioni, oltre ai Fratelli Musulmani, il cui richiamo religioso è stato temuto da tutti i governi centrali egiziani, da quello fantoccio della Corona Inglese a Sadat, si aggiungono i nazionalisti, finora pilastro sociale del sostegno al regime militare.

La vendita  ai Sauditi  di Tiran e Sanafir, isole del Mar Rosso desertiche ma importanti dal punto di vista militare, è stato il casus belli che ha riportato in piazza gli egiziani, indignati per un gesto che ha il sapore della sconfitta e le sembianze di una resa  geo-strategica ai sauditi. Secondo gli egiziani, la famiglia Saud verrebbe così designata come nuovo leader dell’area del Mar Rosso e del Golfo di Aqaba. La cessione delle due isole è funzionale alla costruzione di un ponte tra Arabia Saudita ed Egitto, un collegamento che per  al-Sisi e re Salman unisce due potenze  dell’Africa e dell’Asia ma che per  Israele, che nel 1967 scatenò una guerra preventiva per la chiusura dello stretto di Tiran, potrebbe essere una violazione degli Accordi di Camp David.

Per gli egiziani quindi tale gesto rappresenta la dichiarazione di un’avvenuta abdicazione da parte del loro Paese dal ruolo di leader regionale, e la conferma della debolezza economica e finanziaria dello Stato, che si ritrova a dipendere da anni dalle donazioni di Stati Uniti e di Arabia Saudita. Alla primavera araba del 2011, infatti, è succeduto l’inverno della crisi economica, che ha creato scontento in ogni fascia sociale, ma soprattutto in quella più benestante, principale fiancheggiatrice del regime di al-Sisi.

L’incertezza del sostegno da parte della classe agiata al generale, fautore e custode di un sistema economico e sociale che finora l’ ha tutelata, è un sintomo evidente della difficoltà di gestione del fronte interno. Il potere di al-Sisi è stato finora legittimato dalla pretesa di fungere da garanzia di ordine e difesa contro i fondamentalisti islamici: a un Egitto che rischiava l’implosione, il generale si è presentato come una valida alternativa ai Fratelli Musulmani e al vuoto di potere, ipotesi che si è  invece concretizzata nella vicina Libia. Il timore del fascismo religioso e dell’anarchia, entrambi mali difficili da estirpare una volta insediati in un territorio, ha reso solido il regime, e il leader ha potuto presentarsi nella luce migliore come uomo forte in grado di assicurare stabilità interna all’Egitto e condizioni ottimali agli investitori stranieri.

Ora la posizione presa dall’Egitto al fianco della Arabia Saudita, in un mondo musulmano medio-orientale in preda alle convulsioni e rivalità interne, sembra la risposta del generale a una politica interna a rischio di delegittimazione, per proteste nazionaliste e crisi economica, e al prestigio internazionale del Paese messo sempre più in difficoltà.

La morte del giovane ricercatore Giulio Regeni, infatti, ha sortito l’effetto del lancio un sasso nell’acqua, i cui cerchi concentrici non accennano a smettere di moltiplicarsi. La goffa diplomazia di al-Sisi e la tenacia della famiglia Regeni, non solo hanno costretto un paese amico e partner economico come l’Italia a richiedere un’inchiesta trasparente e la collaborazione fra inquirenti egiziani e italiani, ma hanno anche acceso i riflettori mediatici sulla tutela dei diritti umani in Egitto, le cui sistematiche violazioni a danno dei propri cittadini godono ora di pubblicità internazionale. Da questi fatti è scaturita una visibilità negativa che potrebbe delegittimare la leadership di al-Sisi come uomo e capo di Stato.

La pressione politica italiana, per quanto finora unica in Europa per intensità e clamore, ha suscitato reazioni di rilievo: la Gran Bretagna ha formalmente richiesto all’Egitto un’inchiesta trasparente in seguito a una petizione di change.org; la Germania si è detta preoccupata per le violazioni dei diritti umani in Egitto; pochi giorni fa il Parlamento Europeo ha approvato all’unanimità una mozione a favore della massima collaborazione  possibile da parte dell’Egitto con gli inquirenti italiani.

Al Sisi, tuttavia, non sembra temere le ire di un consesso internazionale, che sa essere più interessato alla prevenzione del terrorismo internazionale da parte egiziana che alla tutela dei diritti umani. Difatti, di fronte a un laconico Hollande, neofirmatario di un contratto da 1, 1 miliardi di dollari in armi, che gli chiedeva delucidazioni in merito alla tutela dei diritti umani, Al Sisi ha dichiarato “Non sapete  cosa accadrebbe al mondo intero, se questo paese crollasse “.

Barbara Polin

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Due anni di sanzioni per la Crimea, ma a farne le spese non è Putin http://www.360giornaleluiss.it/due-anni-di-sanzioni-per-la-crimea-ma-a-farne-le-spese-non-e-putin/ Wed, 23 Mar 2016 15:32:32 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=6174 “A due anni dall’annessione illegale della Repubblica autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli da parte della Federazione russa, l’Unione europea mantiene il suo fermo impegno a favore della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina”. Sono le parole dell’Alto rappresentante per la politica estera e sicurezza comune, Federica Mogherini, riportate da un comunicato stampa rilasciato

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“A due anni dall’annessione illegale della Repubblica autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli da parte della Federazione russa, l’Unione europea mantiene il suo fermo impegno a favore della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina”. Sono le parole dell’Alto rappresentante per la politica estera e sicurezza comune, Federica Mogherini, riportate da un comunicato stampa rilasciato venerdì 18 Marzo.

 

Bastano queste poche righe per capire subito la linea che l’Unione Europea è decisa a seguire contro la Russia, già colpita dalle sanzioni economiche previste dalla risoluzione 68/262 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e dai provvedimenti seguenti adottati dall’UE a partire dal Marzo del 2014. Sono quindi già due anni che continua il braccio di ferro tra Bruxelles e Mosca, durante i quali le tensioni nella regione si sono via via consolidate, tant’è che ormai l’attenzione internazionale si è spostata verso altri fronti.

 

Le ultime proroghe da parte del Consiglio sono arrivate questo mese: il 4 per l’appropriazione indebita di fondi statali ucraini, il 10 contro l’integrità territoriale dell’Ucraina. Quest’ultime, si legge sul sito del Consiglio, sono indirizzate verso “146 persone e 37 entità (…) soggette al congelamento dei beni e al divieto di viaggio in quanto responsabili di azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina” e rimarranno in vigore fino al 15 settembre 2016.

 

Per quanto riguarda il fatto che la Russia abbia sottratto soldi a Kiev, c’è da rimanere perplessi: il Paese, fin da quando i movimenti europeisti sono scesi in piazza, riversava in condizioni finanziarie criticissime, che gestiva grazie agli aiuti che arrivavano proprio da Putin. Oggi è l’UE a colpire direttamente l’economia russa, dal momento che le sanzioni limitano l’accesso ai mercati dei capitali primari e secondari dell’UE da parte dei cinque maggiori enti finanziari russi di proprietà dello Stato e delle loro filiali controllate a maggioranza stabilite al di fuori dell’UE” si legge sempre sul sito del Consiglio.

 

Di fatto, il gigante euro-asiatico è stato estromesso dalla “sala dei bottoni” dell’economia mondiale, in quanto dal giugno 2014 non si riunisce più il G8, bensì il G7. Ma da tutto ciò non ne esce indebolita solo Mosca, che anzi grazie anche alla spinta militare di questi ultimi mesi in Siria ha trovato un notevole traino, ma anche diversi Stati dell’Unione: in primis l’Italia, che si è vista azzerare un mercato importantissimo per l’export, soprattutto per il settore agroalimentare: secondo la Coldiretti, la perdita è stata del 27,5% nel 2015 per effetto dell’embargo russo adottato in risposta alle sanzioni europee.

 

È vero che qualcosa si muove, con la recente visita del Ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, in Russia per sondare il terreno in vista di nuovi accordi; ma gli interessi energetici rendono difficile un rasserenamento veloce delle relazioni: il prezzo stracciato del petrolio rende superfluo l’acquisto di gas e altre risorse da Mosca. Inoltre, le tensioni tra questa e Ankara, oggi più che mai partner strategico per l’UE nella questione dei rifugiati, isolano ulteriormente Putin nello scacchiere mondiale. Che, paradossalmente, vedono sue pedine nei punti più strategici, a partire dalla stessa Crimea.

 

La Storia ha insegnato che a farne le spese per le sanzioni è la popolazione, più che la classe dirigente: difficile però che, quantomeno oggi, possa esplodere un movimento di protesta così forte da capovolgere il governo moscovita. Più probabile sarà la necessità di ridisegnare alcuni confini una volta concluso il capitolo Siria e, in quel caso, un paragrafo importante Putin lo vorrà certamente dedicare a “casa sua”.

 

Timothy Dissegna

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LIBIA: LA GUERRA VISTA DA HOBBES http://www.360giornaleluiss.it/libia-la-guerra-vista-da-hobbes/ Sun, 21 Feb 2016 10:51:36 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=5816 Chissà cosa direbbe oggi Hobbes della Libia, un paese che vive ormai da anni una situazione di caos politico. Dalla caduta di Gheddafi le strutture statali libiche si sono lentamente ma inesorabilmente sbriciolate, ed oggi la sponda sud del Mediterraneo è una terra dove vige quel “tutti contro tutti” che il filosofo inglese avrebbe definito

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Chissà cosa direbbe oggi Hobbes della Libia, un paese che vive ormai da anni una situazione di caos politico. Dalla caduta di Gheddafi le strutture statali libiche si sono lentamente ma inesorabilmente sbriciolate, ed oggi la sponda sud del Mediterraneo è una terra dove vige quel “tutti contro tutti” che il filosofo inglese avrebbe definito come “homo homini lupus”. Attualmente infatti in Libia si confrontano il governo internazionalmente riconosciuto rifugiatosi a Tobruk e padrone dell’est del paese (sostenuto da Egitto e Emirati Arabi Uniti), il fronte islamista padrone di Tripoli e dell’ovest del paese (sostenuto da Turchia, Qatar, Sudan), lo Stato Islamico a Sirte e in altre città costiere, e svariate altre milizie locali. I due attori maggiori della guerra civile sono però Tobruk e Tripoli. Il crollo delle istituzioni ha poi favorito la tratta di esseri umani verso le coste italiane e con essa la massiccia ondata migratoria del 2015. Questa semplice constatazione, aggiunta al progressivo ingrossamento delle fila dello Stato Islamico libico e all’allargamento dei suoi domini, hanno perciò spinto la comunità internazionale a cercare con più determinazione una soluzione al disastro libico. Nel quadro di un processo intavolato dall’ONU, rappresentanti dei due parlamenti di Tobruk e Tripoli si sono quindi incontrati nella cittadina marocchina di Skhirat e hanno condotto negoziati per mettere fine al conflitto, terminati nell’accordo del 17 dicembre. Tale accordo (recepito poi dal Consiglio di Sicurezza ONU) prevede la formazione di un governo d’unità nazionale: si stabilisce che il Consiglio Presidenziale provvisorio verrà formato da 9 membri (rappresentanti delle fazioni in guerra) e avrà il compito di nominare i membri del governo detto di “accordo nazionale”, il cui primo ministro designato è Fayez Sarraj già membro del parlamento di Tobruk. Tale nomina tuttavia deve essere preceduta dall’approvazione della composizione ministeriale da parte dei due parlamenti. La nomina dell’esecutivo non si è però rivelata semplice. Complice il fatto che nessuna delle dirigenze di Tobruk e di Tripoli è unanimemente d’accordo sull’opportunità di un tale sviluppo (denotando un’aspra divisione ancora persistente tra le parti), una prima proposta di composizione del governo è stata bocciata dal parlamento di Tobruk il 25 gennaio di quest’anno, secondo il quale 32 membri erano troppi per il nuovo governo. Le consultazioni sono quindi continuate fin quando il 14 febbraio è stata proposta una nuova rosa di nomi, questa volta più ristretta e comprendente non più di 18 ministri. Il Consiglio Presidenziale però non ha preso la decisione unanimamente: due dei suoi componenti si sono rifiutati di firmare visto che a loro avviso la scelta delle personalità era stata poco trasparente. Sembra poi che la proposta di appuntare Mahdi al-Barghati (colonnello dell’esercito fedele al governo internazionalmente riconosciuto, ma con buoni contatti tra gli islamisti) a ministro della difesa abbia procurato diversi attriti tra i delegati delle due parti della Libia, dato il grande interesse di entrambe le fazioni ad ottenere tale carica. Nonostante tutto, la parola è poi passata a Tobruk. Il parlamento, riunitosi nella serata di lunedì 15 febbraio, ha però chiesto del tempo per esaminare con maggior attenzione la lista di nomi presentati e il giorno seguente ha deciso di rinviare di una settimana la decisione finale, posponendo il voto di fiducia al 23 febbraio e chiedendo nel frattempo allo stesso Sarraj di presentare la composizione del suo esecutivo. Nonostante l’entusiasmo dell’inviato ONU per la Libia Martin Kobler, che definisce il momento come una “storica opportunità per la pace”, non è tuttavia scontato che la prossima settimana il parlamento si riunisca e decida l’approvazione della formazione ministeriale: diverse voci hanno infatti già espresso la loro convinzione che la concessione della fiducia parlamentare non sarà scontata, visto che a Tobruk non è emersa una chiara maggioranza in favore di questa seconda proposta. Tuttavia se i due parlamenti (e con essi i loro paesi sostenitori) si rivelassero pronti al compromesso e il governo di accordo nazionale dovesse entrare effettivamente in funzione, non solo la Libia potrebbe tornare a respirare dopo cinque anni un’aria di pace ma tutta l’Africa settentrionale ne risulterebbe grandemente stabilizzata. Ciò è tanto più vero se si considera che la guerra e la violenza generalizzata, così come le difficoltà economiche in cui versa il paese anche a causa delle falle finanziarie provocate dal basso prezzo del petrolio, stanno favorendo la rapida ascesa dello Stato Islamico. L’accordo del 17 dicembre è anche un’apertura in questo senso, volta a creare un governo unico capace di fronteggiare vittoriosamente i jihadisti anche col supporto di una coalizione internazionale (che l’occidente sembra ansioso di creare). Lo Stato Islamico libico ha recentemente dimostrato il suo potenziale con possenti attacchi nella zona dove sono situati i maggiori terminal petroliferi del paese, mentre i suoi legami col mondo dei traffici illegali sahariani (che fornirebbe armi, denaro e contatti con altri gruppi della regione) ne fanno un soggetto di particolare pericolosità. Sussistono però ancora ostacoli potenziali. Il primo è la discrepanza tra livello politico e militare del contesto libico: i due parlamenti possono pure approvare la proposta di governo di Sarraj ma alla decisione devono poi aderire anche tutte le riottose e autonome milizie che effettivamente combattono sul terreno. In tal senso il lavoro di tessitura diplomatico-militare da parte della comunità internazionale deve essere particolarmente minuzioso, vista soprattutto la concretezza del rischio di istituire un governo che potrebbe presto rivelarsi debole e privo di un solido controllo territoriale. Il secondo problema è poi l’organizzazione della lotta allo Stato Islamico. Prima di qualche mese è poco verosimile che il governo riesca ad essere del tutto operativo e si teme che per quel giorno i jihadisti avranno allargato la loro base in Libia. Dato anche il cattivo stato in cui versano le forze armate libiche, è quindi probabile che il nuovo governo dovrà chiedere un aiuto internazionale sotto forma di campagna aerea: la coalizione tuttavia dovrà tener conto degli interessi dei vari Stati immischiati nel conflitto e dovrà ricevere la legittimazione ad intervenire da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il che non sarà un lavoro facile e richiederà sicuramente del tempo. Il processo di pace ha preso il via nonostante le molte difficoltà: il percorso da seguire è segnato ed ora si starà a vedere se esiste una reale volontà di seguirlo. Tuttavia mentre Hobbes aspetta di veder sorgere dal deserto libico il suo Leviatano sotto forma di un unico governo che imponga la fine della violenza, la guerra di Libia continua a pochi passi da casa nostra.

Guido Albero Casanova

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Ciò che abbiamo perso nel fuoco http://www.360giornaleluiss.it/cio-che-abbiamo-perso-nel-fuoco-2/ Thu, 19 Mar 2015 17:04:56 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=2642 Ha provocato indignazione e turbamento la condivisione negli ultimi giorni di video e notizie che testimoniano lo scempio del patrimonio culturale iracheno commesso dai militanti dello Stato Islamico in quella che è già stata chiamata “la più grande demolizione degli idoli nell’epoca moderna.” Nella Convenzione per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato, leggiamo “i

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Ha provocato indignazione e turbamento la condivisione negli ultimi giorni di video e notizie che testimoniano lo scempio del patrimonio culturale iracheno commesso dai militanti dello Stato Islamico in quella che è già stata chiamata “la più grande demolizione degli idoli nell’epoca moderna.”

Nella Convenzione per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato, leggiamo “i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale”. In molti casi è la storia a rinfacciarci la leggerezza con cui i beni culturali vengono deturpati in contesti di conflitto. Si pensi a tutti i monasteri, le chiese, i monumenti distrutti o danneggiati dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, o al famosissimo caso della statue buddiste abbattute in Afghanistan dai talebani. Si può trattare, di noncuranza e disinteresse verso l’importanza storica di ciò che ci si trova davanti: si pensi al vandalismo gratuito delle truppe americane nei confronti delle rovine mesopotamiche durante la guerra in Iraq. Altre volte, luoghi di elevatissima importanza storica vengono distrutti nel contenderli come posizione strategica tra le parti in conflitto, come ben testimonia la recente storia siriana. Ma anche in contesto di pace si può assistere a raccapriccianti scempi: è il caso delle dieci tombe risalenti alle Sei Dinastie cinesi distrutte dai bulldozer a Nanjing per costruire un’IKEA nel 2007.

Ma forse è ancora peggio quando i beni culturali sono l’oggetto diretto e programmato della violenza. Nella grande maggioranza dei casi, un’opera d’arte si erge a simbolo di un’intera civiltà: un simbolo tremendamente concreto, fatalmente semplice da colpire. Per questo lo Stari Most, un ponte nell’attuale Bosnia-Erzegovina che per centinaia di anni era stato il punto d’incontro e di accettazione tra est e ovest, venne abbattuto durante la guerra nel 1993.

Un capitolo a sé lo scrive la storia dei roghi di libri e biblioteche. Come non citare il magistrale Ray Bradbury con il suo Fahrenheit 451? Un libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo. Il caso di Mosul è solo l’ultimo mattone di una strada lastricata dalla cenere di migliaia di libri dati alle fiamme e soffiati via dai venti dei secoli. Cosa c’è di più intimo in una cultura delle parole dei suoi più illuminati pensatori, scienziati, filosofi, politici? E così, secolo dopo secolo, biblioteca dopo biblioteca, è andato assottigliandosi il patrimonio letterario delle antiche civiltà. Ricordiamo così la collezione della celebre Biblioteca di Alessandria, fondata nel 331 a.C. e fiorita per oltre 500 anni, arrivando a contenere oltre 500mila opere. Una raccolta bruciata e saccheggiata in più momenti a partire dal 48 a.C. fino al 391 d.C.Decisamente negletto ma non meno drammatico, poi, l’annichilimento delle culture indigene americane da parte dei colonizzatori o i roghi nelle piazze sotto il nazismo.

Tutti gli esempi qui citati sono solo parte davvero esigua di quelli che si potrebbero addurre. Forse Aldous Huxley aveva ragione quando diceva che gli uomini non imparano molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna. È giusto ricordare, però, che la storia può essere smentita: non abituandoci al declino, non girandoci dall’altra parte, non facendo finta di nulla.

 

Viola Serena Stefanello

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Lo Stato islamico, un nuovo attore nel teatro del Medio Oriente http://www.360giornaleluiss.it/lo-stato-islamico-un-nuovo-attore-nel-teatro-del-medio-oriente/ Mon, 22 Dec 2014 15:22:24 +0000 http://www.360giornaleluiss.it/?p=1509 Di gruppi terroristici e fronti armati islamici negli ultimi anni ne abbiamo visti di tutti i colori. Al-Qaida, Boko Haram, Al-Nusra, Hamas e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia, ne esiste uno che di recente tormenta i pensieri dell’Occidente in modo particolare, più di tutti gli altri: l’IS (o ex-ISIS o ISIL, come

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Di gruppi terroristici e fronti armati islamici negli ultimi anni ne abbiamo visti di tutti i colori. Al-Qaida, Boko Haram, Al-Nusra, Hamas e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia, ne esiste uno che di recente tormenta i pensieri dell’Occidente in modo particolare, più di tutti gli altri: l’IS (o ex-ISIS o ISIL, come era chiamato prima della creazione del Califfato), lo Stato islamico. Definirlo “gruppo terroristico” però non sarebbe del tutto corretto: questo è solo il modo in cui la maggior parte di noi, influenzata dalle terribili immagini delle decapitazioni, tende a classificare quello che in realtà non è semplicemente un’accozzaglia di terroristi invasati, ma è a tutti gli effetti un vero e proprio Stato.

Proprio così, l’IS (in arabo “al-Dawla al-Islāmiyya”) è uno Stato, non riconosciuto a livello mondiale e proclamatosi tale il 29 giugno scorso, quando il leader del movimento, Abu Bakr al-Baghdadi, ha annunciato urbi et orbi la rinascita del Califfato islamico. Dopo aver stabilito la sua capitale de facto ad Al-Raqqa, città del nord della Siria, lo Stato islamico si è dotato di una vera e propria amministrazione che offre servizi scolastici ai suoi cittadini, ricompensa i suoi soldati, riscuote le tasse, fornisce acqua ed energia elettrica e, da qualche settimana a questa parte, sembra aver installato nei suoi centri abitati delle cabine telefoniche dalle quali è possibile telefonare gratuitamente. Insomma, il Califfo non sembra aver dimenticato i suoi nuovi sudditi e sta costruendo gradualmente un vero e proprio sistema di welfare.

Del resto le risorse non mancano. Pozzo dopo pozzo, i soldati dello Stato islamico hanno conquistato una quantità di giacimenti petroliferi sufficiente a raccogliere ingenti somme di denaro, che servono per mantenere la sua sempre più numerosa macchina da guerra umana: i miliziani del Califfo sono pagati meglio dei soldati governativi siriani ed iracheni e ciò garantisce all’esercito una maggiore coesione nelle fasi operative.

Un aspetto altrettanto importante dell’IS e che evidenzia quanto sia elevato il livello della sua organizzazione è il linguaggio: sfruttando la straordinaria risonanza che offrono i social network come Facebook, YouTube e Twitter (penso che Instagram lo lasceranno perdere…), il Califfato utilizza un linguaggio e una propaganda che gli permette di riscuotere consenso in tutto il mondo, penetrando qualsiasi tipo di cultura o società. Non a caso, i militanti dell’IS comunicano sempre in inglese, la lingua veicolo di informazioni per eccellenza, semplicemente perché non tutti gli islamici parlano arabo. Tramite l’inglese tutti i devoti di Allah, e non solo, possono comprendere facilmente i messaggi che il Califfo vuole diffondere. Lo stile con il quale questi messaggi vengono diffusi appare decisamente efferato e crudele: decapitazioni ed esecuzioni, postate in rete con una facilità irrisoria, sono per l’IS un simbolo di forza.

Ma finora qual è stato il comportamento dell’Occidente? Diversi paesi, tra cui l’Italia, si sono uniti alla causa, ma la coalizione anti-Is guidata dagli Usa sembra fare acqua: in primo luogo perché gli obiettivi militari sono incerti e diversificati (del resto è difficile colpire un nemico che controlla un territorio non geograficamente compatto): è una guerra contro Assad, contro l’IS o contro entrambi?; in secondo luogo perché i principali nemici dell’Is, su tutti l’Iran sciita, non agiscono direttamente all’interno di essa: Teheran, stando alle rivelazioni della Reuters, sarebbe anche disposta a combattere in prima linea il Califfato, ma in cambio desidererebbe più flessibilità sul programma iraniano di arricchimento dell’uranio, in merito al quale è in corso un negoziato con Washington; infine, una guerra combattuta senza l’utilizzo di forze terrestri non sembrerebbe dare risultati soddisfacenti: i raid aerei limitati potrebbero non bastare per sconfiggere l’esercito di al-Baghdadi, ma nessun paese occidentale è disposto a impiegare le proprie risorse militari sul campo.

Osservando l’operato dell’Occidente, diviene lecito porsi una domanda: se lo Stato islamico non avesse invaso l’Iraq e si fosse limitato a combattere contro Assad e contro i curdi avremmo lo stesso creato una coalizione contro di lui? Probabilmente no, ma l’Iraq ha la fortuna/sfortuna di possedere immensi giacimenti petroliferi e l’assenza di una situazione stabile nella Mezzaluna fertile non giova certo al mercato dell’oro nero.

Ed è proprio dall’oro nero che deriva l’ultima osservazione da fare sulla guerra contro i jihadisti di Al-Raqqa. A chi giova questo conflitto? Gli unici paesi che potrebbero trarre vantaggio da un conflitto del genere sarebbero dei paesi esportatori di petrolio, che, grazie alla destabilizzazione strategica delle maggiori aree energetiche del mondo, riuscirebbero in questo modo a vendere il loro prodotto a prezzi inferiori a quelli dei produttori rivali. Nel giugno 2014, l’Ufficio per la Sicurezza e l’Industria del dipartimento al Commercio Americano ha autorizzato, per la prima volta in 40 anni, due piccole compagnie petrolifere americane a vendere petrolio greggio all’estero. Gli Stati Uniti sono diventati a tutti gli effetti esportatori di petrolio, grazie allo sfruttamento delle formazioni geologiche cosiddette “Shale”, e il petrolio americano a basso prezzo sta invadendo il mercato, danneggiando paesi produttori come la Russia, il Venezuela, l’Iran e le monarchie del Golfo. Forse la strategia di Obama non era poi così superficiale come molti l’hanno definita.

Difficilmente l’IS diventerà il nuovo “terrore della Cristianità”, perché per ora i seguaci di al-Baghdadi sono ancora occupati a ritagliarsi il proprio spazio nel mondo islamico, socialmente, politicamente, militarmente ed economicamente. Contando che uno dei suoi nemici principali in Siria è il regime di Bashar al-Assad, regime che nel 2013 le potenze occidentali hanno combattuto sostenendo i ribelli siriani, il problema questa volta è molto serio: qual è il vero obiettivo di Europa e Stati Uniti? Chi è il vero nemico, l’IS oppure Assad? Contro chi bisognerà continuare a combattere?

Questo articolo è stato scritto da Filippo Malinverno

 

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