Arriva un momento, nella vita di ogni artista, in cui risulta necessario fare un bilancio. Un bilancio dei propri successi e dei propri fallimenti, dei sogni realizzati e delle occasioni mancate. É proprio questo che fa Mort (Wallace Shawn), protagonista di “Rifkin’s festival”, per tutta la durata del film. Ed è quello che fa lo stesso Woody Allen, con la sua ultima brillante commedia.

Chi conosce il nevrotico regista newyorkese, sa che il cinema di Woody Allen ha principalmente l’intenzione di porre delle domande, più che di fornire delle risposte. E proprio per questo, il suo alter ego intraprende un viaggio – esteriore ma soprattutto interiore – alla ricerca di se stesso, dei suoi errori passati, di un significato ultimo. Perduto come Ulisse e rassegnato alla futilità dell’esistenza (come i personaggi di Dostoevskij, Kafka, Nietzsche), troverà conforto unicamente nei sogni e nelle illusioni, che assumono costantemente le sembianze di alcuni capisaldi del cinema europeo, da sempre caro ad Allen. E così “Quarto Potere” aiuta a descrivere la sua infanzia, “Il posto delle fragole” rappresenta le sue delusioni amorose giovanili, “Un uomo, una donna” ritrae la sua infatuazione extraconiugale. Poi ancora “8 e mezzo” sul blocco artistico, “Jules et Jim” e “Fino all’ultimo respiro” sulla crisi coniugale, “Il settimo sigillo” per riprendere l’ossessione della morte. Il citazionismo è estremo: da Bergman a Fellini, da Godard a Truffaut, da Bunuel a Lelouch e Orson Welles.
Ma alla fine di questo percorso spirituale, attraverso cui il nostro protagonista riuscirà a comprendere alcune, importanti cose su se stesso e sul proprio passato, rimarranno ancora irrisolti gli interrogativi più importanti, relativi all’esistenza e all’intima essenza della condizione umana. I quali non troveranno mai una risposta definitiva.
Il risultato è un’opera certamente godibile – soprattutto per gli amanti di un cinema d’antan – nonostante una trama poco strutturata e a tratti già vista. Ma il messaggio di Woody Allen arriva ancora una volta forte e chiaro: non è possibile vivere in un mondo privo di significato (come afferma anche il Sisifo di Camus), se non si è in grado di trovare un rifugio da questa terrificante verità. Rifugio rappresentato dalle illusioni, dai sogni, dal cinema. Da un cinema che non tornerà più, che il regista mette in scena con la sofisticata fotografia di Vittorio Storaro (calorosa quando illumina i paesaggi, scintillante nel bianco e nero), le sue celeberrime ansie e idiosincrasie, ed anche un pizzico di nostalgia. Senza risparmiare al pubblico la consueta ironia con la quale esorcizza la sua visione radicalmente pessimistica della vita.
“Ho sempre paura che mi rimanga un mese di vita. Con la mia fortuna, sarebbe febbraio”.