La trama
“Era strano come tutto fosse cambiato eppure sempre uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.”
La luna e i falò è l’ultimo romanzo di Cesare Pavese ed è la storia di un uomo, soprannominato Anguilla, che torna al suo paese di origine dopo essere andato via di casa e aver girato il mondo. Nelle sue Langhe, Anguilla non ci è nemmeno nato, lo specifica fin da subito. Nella struttura a flashback il protagonista svela di essere stato adottato per ricevere la mensilità garantita di cinque lire per badare agli orfani.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

La famiglia adottiva verrà presto lasciata da Anguilla, che passerà gli anni della sua adolescenza a lavorare alla Marna per il sor Matteo. Qui Anguilla avrà modo di provare per la prima volta la sensazione della vita fuori di casa e di elevarsi un poco dalla miseria in cui viveva. Allo stesso tempo, però, si renderà conto più volte della linea che lo separa dalle figlie del suo datore di lavoro. Irene, Silvia e Santa conducono una vita completamente diversa dalla sua e nel libro è evidente che Anguilla le percepisca, all’inizio, come inarrivabili.
“Per tutta l’estate, dal cortile e dai beni era bastato levar gli occhi e vedere il terrazzo, la vetrata, i coppi, per ricordarsi che le padrone eran loro, loro e la matrigna e la piccola, e che perfino il sor Matteo non poteva entrare nella stanza senza pulirsi i piedi sul tappeto.“
In seguito, sempre attraverso flashback del protagonista ormai quarantenne, il lettore è in grado di scoprire come Anguilla abbia lasciato la Marna e deciso di andare prima a Genova e poi in America. Lì crederà di trovare ciò che sta cercando, ma nemmeno in quel caso sarà in grado di fermarsi e, alla fine, deciderà di tornare al luogo che sente come casa.
“Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa. Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura […] C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: “Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere.”
Recensione
L’impressione che permea l’intero romanzo è quella di una straordinaria ineluttabilità a cui i protagonisti non possono far altro che assistere e prenderne atto. Da una parte vi sono le tre figlie del sor Matteo, che sono viste come superiori, ricche e benestanti, da un Anguilla che, fin da bambino aveva desiderato andar al paese a divertirsi con i suoi coetanei, ma non aveva potuto.

“ma quante volte avevo visto passare le carrette rumorose con su le sediate di donne e ragazzi, che andavano in festa, alla fiera, alle giostre […] Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente.”
Nemmeno Irene, Silvia e Santa scampano dalla piramide sociale e non vengono invitate al ricevimento della contessa di Genova. Le ragazze vengono descritte provare sentimenti simili a quelli del protagonista, soffrire come lui dello stesso desiderio di elevarsi al di sopra della loro normalità e assurgere a qualcosa di irraggiungibile.
“Si capisce che la voglia di andarsene dalla Mora, di entrare in quel parco sotto i platani, di trovarsi con le nuore e i nipoti della contessa, le faceva addirittura ammattire. Era come per me vedere i falò sulla collina di Cassinasco o sentir fischiare il treno di notte.”
Dall’altra parte vi sono Nuto e Anguilla stesso. I due uomini erano amici fin dalla giovinezza, quando Nuto era una sorta di fratello maggiore per il protagonista. Nonostante non si siano visti per vent’anni, quando Anguilla torna nel suo paese, Nuto lo accoglie e svolge il ruolo di un Virgilio della Divina commedia e lo accompagna attraverso il suo viaggio.
“Nuto che, in confronto a me non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne.”
Nuto non ha viaggiato come Anguilla, eppure è un personaggio che ha le idee chiare su come dovrebbe andare il mondo. In adolescenza è stato per il protagonista una guida e durante tutto il libro non manca di continuare a fornire i suoi consigli ad Anguilla. Durante la lettura ho avuto la percezione che Nuto fosse un po’ anche la mia di guida e che rendesse ciò che vedevo più chiaro, quasi universale.
“Per me, delle stagioni eran passate, non degli anni. Più le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta [..] più mi facevano piacere. […] Qui Nuto diceva che avevo torto, che dovevo ribellarmi, che su quelle colline si facesse ancora una vita bestiale, inumana, che la guerra non fosse servita a niente, che tutto fosse come prima, salvo i morti.”
Nuto, che non se n’era mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, che sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo.

Anguilla è rassegnato alle cose come stanno, mentre Nuto no, è evidente per tutto il libro. Forse è questo che lo ha reso il mio personaggio preferito, l’unico che sembrava perfettamente a suo agio nel contesto in cui viveva, ma in grado di evidenziarne i difetti e voler comunque cambiarli. Sotto la guida di Nuto, anche il protagonista evolve e cambia durante la storia. Molto affascinante nell’evoluzione del protagonista è il rapporto che instaurerà con il personaggio di Cinto. Lui è un ragazzo che ricorda ad Anguilla se stesso da giovane, con le sue stesse esigenze e che, come lui, desidera andare via dal contesto brutale in cui è cresciuto, da un padre violento e da una povertà totalizzante e senza possibilità di riscatto.
“Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo. Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva la notte e le cose che gli passavano in mente mentre arrancava per la piazza.”
Al termine del libro, la vita di Cinto viene distrutta da un incendio e lui riesce a salvarsi grazie al coltello che gli ha dato lo stesso Anguilla. Il protagonista, dunque, vede la sua vecchia casa bruciata – un definitivo distacco dal passato – e decide di prendere il ragazzo sotto la sua ala protettiva, diventando per lui la figura che gli è mancata nell’infanzia o che, forse, è stata sostituita da Nuto.