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È estate, siete in vacanza. Avete scelto di visitare il Salento non solo per ammirare il mare turchese o per andare a ballare in Puglia (Caparezza non me ne voglia) ma anche per appezzare un paesaggio fatto di colline argentate, dove sono gli ulivi, spesso secolari, alti diversi metri, a fare da protagonisti.
E gli ulivi in Puglia, come in molte altre regioni italiane, sono un’autentica miniera d’oro verde: l’olio extravergine d’oliva è il principe indiscusso della dieta mediterranea, prodotto d’esportazione e superfood che ha contribuito a rendere famosa la nostra cucina e, con essa il territorio, nel mondo.

Torniamo ora alle vacanze pugliesi. Immaginate di guidare lungo le strade del litorale meridionale, tra le distese di sabbia chiara e finissima di quell’angolo di paradiso che chiamano “Caraibi d’Italia”. La vostra attenzione viene catturata da un fumo denso che intravedete in lontananza; un bagliore si fa più nitido verso l’entroterra, quello di una rossa brace che si espande fino a diventare fiamma. Ulivi, alti fino a tre metri, si accendono come fuochi fatui e bruciano per ore, giorni, sgretolandosi lentamente e facendo ondeggiare brandelli di tronco, di rami, stagliando sull’orizzonte piatto uno scheletro sempre più sottile e storto, finché tutto si accascia, lasciando al suolo un pugno di resti anneriti. È quello che è successo in Salento per ben otto estati consecutive, da quando, nel 2013, è stata scoperta per la prima volta la Xylella Fastidiosa. Le immagini del satellite Sentinel 2 riportano uno scenario straziante. Sono circa sei milioni e mezzo gli ulivi gravemente danneggiati dall’epidemia, che, se non direttamente bruciati dagli olivicoltori nel tentativo di salvare il salvabile, sono ridotti a corpi contorti, grigi, svuotati dalla linfa vitale da un batterio letale ed altamente contagioso.

Ma come si infetta la pianta? Da quel marzo 2020 in cui è entrato in scena il Covid-19, abbiamo acquisito familiarità con il lessico di virologi ed epidemiologi tanto da poter comprendere meglio come si diffonde un qualsiasi agente patogeno e non solo tra esseri umani. Il batterio viene trasportato da un albero all’altro attraverso un insetto vettore noto come “sputacchina” e, una volta penetrato nella pianta, si riproduce creando ostruzioni nei vasi linfatici. Compaiono i primi ciuffi di foglie arse, poi i rami secchi e, in poco tempo la pianta si secca e muore, letteralmente soffocata. Questa è solo la prima tra le tante macabre analogie tra Xylella e Covid. Proprio come il virus, la Xylella non colpisce con la stessa gravità tutte le piante. Le sue vittime predilette sono ulivi fragili, cresciuti su un terreno impoverito o nelle zone dove la qualità dell’aria è peggiore, o ancora ulivi “anziani”, secolari, molti dei quali inseriti nell’elenco delle piante monumentali. Se il Covid ha decimato un’intera generazione, quella che si è sollevata dall’angoscia della guerra, quella dei nonni, dei raccontastorie, la Xylella ci ha privati di altri saggi, testimoni del tempo e presidio della natura. 

Si sarebbe potuta evitare la tragedia assicurando il contenimento del contagio? Sì.
Come avvenuto per il Covid, alle fasi iniziali dell’epidemia l’opinione pubblica era spaccata fra una minoranza di scienziati, che metteva in guardia da un pericolo significativo, e una maggioranza di opinionisti, che parlava di “banale influenza stagionale” e inveiva contro la comunità scientifica, fatta da “Cassandre” e “profeti di disgrazie”.
 Allo stesso modo, qualche anno prima, l’emergere in Puglia della Xylella ha diviso la popolazione fra chi ha preso sul serio il batterio – di nuovo, una minoranza – e chi ne ha subito minimizzato il ruolo. La sfiducia nella scienza è l’artefice del medesimo pattern: ogni rischio genera la sua negazione, il fenomeno allarmante degenera in un problema non più arginabile perché non si è agito tempestivamente. Le misure per contenere il contagio tra gli uliveti incontrarono grandi difficoltà, tra false notizie, ricorsi ed interventi della magistratura. Ma ai patogeni non interessano talk show, dibattiti pubblici e adempimenti burocratici, continuano a moltiplicarsi e a mietere vittime. Così, dal Salento, il batterio è risalito fino a Bari.

E allora, quale insegnamento ne ricaviamo? Quando si presentano le emergenze bisogna mantenere attivi e funzionanti i centri di ricerca e i servizi tecnici sul territorio, alimentando strutture e competenze. Il sistema sanitario si è scoperto impreparato a gestire le conseguenze di una pandemia, così come le politiche pubbliche non sono state in grado di far fronte all’avanzata della Xylella verso nord. Ma c’è una buona notizia. All’inizio la scoperta dei contagi avveniva solo quando la malattia era evidente; poi i ricercatori del CNR hanno sequenziato il genoma del batterio e sono stati in grado di avere subito la certezza del contagio, elaborando test simili ai tamponi che si effettuano per il Covid. Nelle serre del CNR si è anche lavorato per individuare ulivi resistenti all’attacco di Xylella, sostituendo le varietà predisposte a sviluppare la malattia con altre che potremmo chiamare “asintomatiche”.

Ma cosa sta accadendo oggi in Salento, dove tutto è cominciato? Accanto ai tronchi disseccati dal batterio, sono stati reintrodotti nuovi alberi, già capaci di produrre e che reagiscono bene all’infezione. Gli ulivi secolari, sopravvissuti all’epidemia, sono stati potati e sottoposti ad un innesto con la varietà “Leccino, così, se il batterio dovesse attaccarli, resisteranno. Quando andrete in vacanza in Salento e passeggerete tra gli uliveti, quando assaggerete qualche piatto della tradizione, condito con abbondante olio d’oliva, siate grati per il lavoro dei tanti scienziati e tecnici che, con le armi della ricerca, hanno reso ancora possibile continuare a godere di tanta bellezza.

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Responsabile web 21/22 Caporedattrice Il Protagonista 19/20, 20/21 e 21/22