Via Bagnera, anche conosciuta come Stretta Bagnera, è la strada più stretta di Milano che cela inganni e delitti che hanno permesso di tramandare la leggenda del primo serial killer d’Italia.
Il “Mostro di stretta Bagnera” iniziò a colpire nell’aprile del 1849, a discapito di un povero manovale che lavorava per lui presso la sua casa in via Bagnera. Angelo Ribbone, uomo dalle umili origini e onesto lavoratore, venne ucciso per pura cupidigia. Qualche giorno prima, infatti, aveva raccontato dei suoi risparmi per i progetti matrimoniali, che ammontavano a 1.400 svanziche. Quando il giorno successivo si recò nuovamente sul luogo di lavoro, venne ucciso con un colpo d’ascia, il suo corpo venne diviso in tre parti e seppellito nello scantinato di via Bagnera.
La seconda vittima fu un mediatore d’affari, Giuseppe Marchesotti, che frequentava spesso le aste della città e venne subito notato dal killer. Quest’ultimo lo attirò nel suo scantinato proponendogli un grosso affare per il quale sarebbero servite solo 4.000 svanziche. Il delitto venne messo in atto seguendo le stesse modalità usate per la sua prima vittima: colpo in testa, buca, sepoltura.
Le prime indagini si aprirono soltanto nel 1860, dopo che Giovanni Maurier si recò presso gli uffici del Tribunale per denunciare la scomparsa della madre. Come era consueto fare, l’uomo era andato a trovare l’anziana a casa ma era stato avvertito dai vicini che questa aveva deciso di prendersi una vacanza e soggiornare vicino al lago di Como.
Dato il rapporto travagliato che correva tra i due e le stranezze della donna, il figlio non si preoccupò dell’accaduto, finché non passarono diverse settimane senza avere notizie di lei. A quel punto, iniziò insistentemente a chiedere informazioni ai vicini, che dissero di non aver notato nulla di strano se non la frequente presenza di un capomastro che era stato da lei incaricato di procedere in alcuni lavori di ristrutturazione della casa.
Il giorno dopo, Giovanni tornò nella casa della madre per chiedere informazioni al capomastro, che confermò il fatto che l’anziana stesse soggiornando nei pressi del Lago di Como, da lei comunicato tramite delle lettere. Per guadagnarsi ulteriormente la fiducia dell’uomo, il capomastro gli propose di affittare la casa ad un prezzo bassissimo visto che la donna, in una delle ultime lettere, aveva comunicato che non sarebbe tornata a Milano.
Vista l’allettante proposta, Giovanni non mostrò forti sospetti sul capomastro, sul quale comunque si aprirono delle indagini. Durante queste, venne infatti trovato un fascicolo a suo nome per tentato omicidio, che era stato poi archiviato. Nel 1851, l’artigiano Pietro Meazza era stato ingannato dal capomastro ma si salvò perché scese nella cantina della stretta Bagnera senza togliersi il rigido cappello. Questo era poi fuggito in strada, trovando un poliziotto a cui denunciare l’accaduto.
Le testimonianze e le varie denunce a carico del capomastro non sembrarono importare, visto che egli aveva ormai acquisito la reputazione del bravo padre di famiglia, tutto casa e chiesa. La sua apparente gentilezza e calma che mostrava nei confronti del resto delle persone e la sua attività nella parrocchia, lo avevano reso insospettabile.
Durante l’intero il processo egli convinse tutti di essere incapace di intendere e di volere, sostenendo di non ricordare nessuno dei fatti accaduti e giustificandosi descrivendo alcuni apparenti disturbi mentali che lo tormentavano.
Quando però gli agenti perlustrarono il caseggiato e la cantina dell’uomo, queste scuse non tennero più. Sepolti all’interno, infatti, vi erano i corpi delle sue vittime, smembrate o fatte in pezzi.
L’8 aprile 1862 venne impiccato il “Mostro di Stretta Bagnera”, Antonio Boggia.