Negli ultimi dieci anni l’Italia ha visto un forte ridimensionamento della sua posizione internazionale. La ragione di questo deterioramento del suo credito nasce da alcuni problemi cronici che da tempo interessano il nostro Paese. La prima motivazione che spiega questa crescente irrilevanza è la precarietà dei nostri governi. Dal 1948 ai giorni nostri, si sono susseguiti ben sessantasette governi, con una durata media di poco più di un anno a testa.
L’instabilità dei governi non pregiudica solo la continuità politica per le questioni domestiche, ma pregiudica anche le nostre relazioni internazionali. Le continue crisi istituzionali minano l’affidabilità del Paese di fronte ai propri partner e impediscono, nei fatti, politiche di ampio respiro. A questo si aggiunge un’altra criticità che caratterizza la politica italiana ovvero, le forti fratture che sussistono tra i diversi partiti nella visione della posizione del Paese nel contesto delle relazioni internazionali.

Questo è un aspetto che ha sempre caratterizzato la politica estera italiana fin dai tempi della Destra e della Sinistra storica, aspetto che ha conosciuto la sua estremizzazione nella Guerra Fredda, periodo in cui questa divergenza che esisteva tra i partiti fu uno dei motivi che preclusero al PCI l’accesso al governo.
L’esclusione dei comunisti dagli incarichi governativi permise agli esecutivi di allora (in particolare a quelli guidati da De Gasperi) di ancorare l’Italia alle istituzioni europee e al Patto Atlantico, riuscendo a portare avanti una scelta di campo coerente e costante negli anni nonostante la forte instabilità dei governi.
Questa chiara visione delle relazioni internazionali è venuta meno negli anni successivi e nel corso dell’ultima legislatura la nostra politica estera si è presentata ancora più confusa e in totale discontinuità rispetto al passato. L’Italia, beninteso, da tempo non presenta una politica internazionale incisiva, ma da De Gasperi in poi si è sempre mossa all’interno di un perimetro internazionale ben preciso, il quale, dal secondo dopo guerra, ha come suoi elementi fondanti l’atlantismo e la promozione delle politiche comunitarie.
Se la critica alla nostra contiguità agli Stati Uniti è di lunga memoria e non si può dire che abbia un chiaro erede tra i partiti dell’attuale arco istituzionale, il rifiuto verso l’UE si è affermato nell’ultimo decennio, esprimendosi chiaramente nel governo Conte I, tanto da costringere il capo dello Stato a porre il veto sulla nomina dell’economista Paolo Savona al MEF per via delle sue posizioni radicali nei confronti dell’euro.
Le precauzioni prese dal presidente Mattarella, tuttavia, non hanno evitato in seguito, delle relazioni turbolente tra il governo giallo-verde e le istituzioni europee sui temi dell’immigrazione e una certa ostilità dell’esecutivo italiano nei confronti delle regole di bilancio comunitarie.

Ciononostante, in nessun caso per l’Italia si è realmente profilato uno scenario di uscita dall’euro, né tanto meno dall’alleanza atlantica, ma il Conte I, come anche il governo giallo-rosso, d’altronde, ha presentato forti ambiguità su temi meno coperti mediaticamente. Si tratta in particolare dei rapporti mai ben chiariti con Russia e Cina. La questione della Nuova Via della Seta, fortemente sostenuta da Luigi Di Maio, Ministro del Lavoro prima e degli Esteri poi, rappresenta un esempio dell’ambiguità della nostra posizione internazionale.
La firma del memorandum destò perplessità all’interno dello stesso governo Conte, non solo per i dubbi circa il contenuto dell’accordo siglato con la Repubblica cinese, ma anche per le modalità con cui questo accordo fu stipulato. Il nostro Paese fu l’unico membro del G7 ad aderire al progetto della Nuova Via della Seta e questo fu senz’altro un segnale forte in quanto piuttosto che affidarsi al consueto multilateralismo il governo preferì sviluppare un linea indipendente rispetto ai nostri alleati tradizionali.
Anche sotto questo aspetto bisogna considerare che non si presenta il pericolo per l’Italia di diventare filocinese, ma piuttosto questo porta i nostri governi a interpretare un ruolo ambiguo, poco limpido nei confronti dei nostri principali partner politici e commerciali. Questa forte ambiguità delle nostre relazioni internazionali è rientrata con la nascita del governo di Mario Draghi.
L’ex governatore della BCE, fin dal discorso di insediamento, ha voluto rimarcare l’adesione dell’Italia ai valori dell’atlantismo e dell’europeismo. L’attuale governo ritiene che il nostro Paese possa far fronte alle sfide globali esclusivamente all’interno dei contesti multilaterali che l’hanno sempre vista partecipe. Da qui la necessità di avere un chiaro posizionamento internazionale.
Una politica ambigua comporta delle conseguenze pesanti nel lungo periodo, in particolare mina quella che è la credibilità di un Paese di fronte ai propri partner. Questa mancanza di credibilità ha prodotto una cronica incapacità italiana di contare all’interno delle istituzioni europee e ad una svalutazione delle nostre istanze.
Esiste una legge non scritta nelle relazioni internazionali: se si vuole avere un peso specifico occorre essere prima di tutto affidabili, chiari e coerenti. Le ambiguità e i “giri di valzer” non ci hanno giovato in passato e continuano a danneggiarci oggi.