Il 12 marzo scorso, nello spazio di 24 ore, le autorità dell’Arabia Saudita hanno eseguito 81 condanne a morte. Ad annunciarlo è stata la stessa agenzia stampa ufficiale del Regno, la SPA. Si tratta della più grande esecuzione di massa nella storia moderna del Paese. Sebbene molte agenzie stampa osservino che il comunicato governativo non precisi le modalità delle esecuzioni, è probabile che sia stato seguito il metodo già precedentemente impiegato dallo stato saudita. E infatti, l’ONU riporta che gli 81 condannati sono stati giustiziati tramite decapitazione.
Top 5
L’Arabia Saudita ha quella che si potrebbe definire una lunga tradizione in fatto di esecuzioni. Secondo quanto riporta Amnesty International, il Regno arabo è da anni nelle prime cinque posizioni nella classifica dei paesi che eseguono più condanne a morte. Lo stato saudita si classificava terzo per numero di esecuzioni nel 2018 e nel 2019, per poi scendere “solo” al quinto posto della macabra classifica nel 2020. Riyad sembra però essere intenzionata a risalire verso posizioni più in alto: le 81 teste fatte rotolare il 12 marzo sono infatti più delle 67 tagliate nell’intero 2021. Un segnale, secondo molti osservatori, preoccupante.
Terroristi?

I condannati erano stati riconosciuti colpevoli dai tribunali sauditi di terrorismo o crimini ad esso connessi. Secondo le autorità del Regno, gli 81 erano legati a diversi gruppi terroristi, come ISIS, Al Qaeda o gli Houthi, un gruppo radicale sciita contro cui Riyad combatte nella guerra civile nel confinante Yemen.
Tuttavia, in un commento l’alta commissaria ONU per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha sollevato obiezioni circa l’effettivo legame tra i condannati a morte e i gruppi terroristici, affermando che la legge saudita presenta una designazione “troppo ampia” di terrorismo, facendovi rientrare anche “comportamenti che mettono a rischio l’unità nazionale” e “atti che minano la reputazione dello Stato”, cose che col terrorismo hanno poco a che fare.
Nessun diritto
Secondo le informazioni diffuse dall’ONU e da Amnesty, tra gli 81 condannati figuravano 8 stranieri, di cui 7 yemeniti e un siriano, e 73 sauditi, tra cui 41 membri della minoranza sciita, una minoranza che, in un Paese a maggioranza sunnita, subisce gravi discriminazioni. Il sistema giudiziario saudita offre poche garanzie agli imputati, che hanno difficoltà a rivolgersi a degli avvocati e vengono spesso sottoposti a privazioni e vera e propria tortura durante la detenzione. Nel Paese i diritti umani più basilari vengono quotidianamente negati e violati. Esecuzioni di massa si erano già registrate nel 2019, con 37 giustiziati in un solo giorno, e nel 2016, in cui in 24 ore vennero eseguite 47 condanne a morte.

Perdere quasi tutti i denti
Amnesty riporta la storia di uno degli 81 giustiziati, Mohammad al-Shakhouri, considerato “terrorista” e condannato a morte per aver preso parte a manifestazioni violente contro il governo. Shakhouri aveva denunciato di non aver ricevuto assistenza legale e di essere stato ripetutamente picchiato dai suoi carcerieri, fino al punto di perdere quasi tutti i denti. Nonostante ciò, e i forti dolori alle costole e alla schiena causati dalle continue vessazioni, a Shakhouri non sarebbe stata offerta alcuna assistenza medica. Con le ripetute torture gli è stata estorta una confessione falsa, che ha poi ritirato. Non è bastato a salvarlo. È stato condannato ed ucciso comunque, con altre 80 persone.
Quali cause?
Sulle cause di un’esecuzione di tali proporzioni si sono interrogati molti osservatori. Secondo alcuni, come Alessandra Benignetti su “Il Giornale”, Riyad ha voluto approfittare della distrazione delle opinioni pubbliche occidentali per sbarazzarsi di detenuti scomodi. Secondo “Vatican News”, invece, una causa potrebbe essere la “logica di guerra”, in un tentativo da parte saudita di lanciare un insanguinato messaggio a stati e gruppi armati che le sono nemici.
Per altri la valenza dell’esecuzione è solo interna: la famiglia reale saudita, infatti, mantiene il potere grazie ad un precario equilibrio fondato sulla sottomissione di varie famiglie e tribù locali, ottenuta tramite un mix di omaggi generosi e spietata repressione. L’esecuzione, in questo caso, sarebbe un messaggio a nemici e oppositori interni al regno.
Un messaggio agli USA?

Infine, per altri, l’esecuzione sarebbe sì un messaggio, ma per gli USA, in un contesto più ampio, come gli accordi tra Cina e Arabia Saudita sulla vendita di idrocarburi e il rifiuto da parte del Regno arabo di intervenire per abbassare il prezzo del petrolio. Con queste operazioni, il principe dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, che controlla il potere a Riyad, vorrebbe segnalare a Washington la propria insoddisfazione verso alcuni atteggiamenti dell’amministrazione Biden.
Nel governo USA, infatti, sembra esserci una certa ostilità verso il principe, che guida un regime ferocemente repressivo ed è accusato del brutale omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi. Infatti, secondo le accuse di molti giornali, Khashoggi sarebbe stato assassinato su ordine di bin Salman nel consolato saudita di Istanbul, città in cui il giornalista si era autoesiliato, e successivamente fatto a pezzi con un seghetto.
Un regime brutale
Probabilmente, tutte le cause indicate dagli osservatori hanno giocato un ruolo, sebbene sia difficile determinare quale sia stata la più influente. In ogni caso, in questo periodo di violenza, il regime saudita ci regala un nuovo picco di brutalità e sangue versato in nome del potere. Sebbene il Paese abbia, negli ultimi anni, intrapreso un difficile processo di modernizzazione, questo tragico crimine commesso dalle autorità segnala che ci vorrà ancora molto tempo prima che questo processo si completi. E che saranno ancora molte le persone che, nel mondo, saranno uccise da uno stato.