PADRI-PADRINI NELLA LARGA PORTA DELLA MISERICORDIA: CONVERSAZIONE CON ANTONIO NICASO

    La Betlemme mafiosa si chiama Favignana. È qui che Osso, Mastrosso e Carcagnosso, votandosi a San Giorgio, alla Madonna e a San Michele Arcangelo, diedero vita alle mafie geograficamente differenziate. Con un tale sostegno, sembra difficile smantellare quell’apparato sacrale che attira i nuovi affiliati e preserva la fedeltà dei vecchi. Si considerano i custodi di valori ancestrali e tradire l’onorata società è un peccato da punire con la morte.

    I mafiosi non sono cattolici. Hanno sempre strumentalizzato il Cattolicesimo. Si sono creati un Dio a loro immagine e somiglianza. È un Dio tollerante, accomodante. I miti e i riti che più di ogni altra cosa contribuiscono a creare un’identità, ma soprattutto un senso di appartenenza, sono stati mutuati da ambienti familiari ai mafiosi, come quello della Chiesa, in un tempo in cui gli analfabeti parlavano con le parole del prete e con i proverbi e agli adagi della tradizione e della saggezza contadina. Per molto tempo, la Chiesa ha fatto finta di non vedere e di non sentire. Ha così consentito ai mafiosi di utilizzare per fini funzionali a logiche di potere processioni, riti e associazioni pubbliche di fedeli, come le confraternite.

    Questo rapporto si scinde in due componenti, una interna ed intimistica, che si estrinseca nel rapporto con Dio, da cui l’uomo, prima che il mafioso, sembra voler trovare approvazione, l’altra esterna, consistente nella frequentazione dei prelati e nella partecipazione alle feste religiose, per conquistare il consenso della società. C’è qualcosa di spaventosamente umano in questa ricerca di assoluzione, in questa sceneggiata delle virtù, che legittima il più grande ostacolo nella lotta alla mafia: “è una persona perbene “.

    La mafia per esistere ha bisogna di riconoscimento sociale. È una società segreta di cui tutti devono conoscerne l’esistenza. Le associazioni mafiose, come cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, non sono mai state veramente dalla parte dei deboli contro i forti o dalla parte dei poveri contro i ricchi. Come sosteneva Pasquale Villari sono il prodotto della modernità, da sempre funzionali alle classi dirigenti. Per i mafiosi, il prete è un ottimo biglietto da visita, la riconoscenza della Chiesa locale serve a legittimare il prestigio sociale di un boss che ha sempre visto nelle processioni, nelle raccolte di fondi a favore di Chiese e ordini religiosi, un modo per entrare in contatto con la gente importante, quella che in un paese gode di maggiore prestigio.

    “Solo Dio è il vero giudice” scrivono sui muri delle celle. Il pentimento che si manifesta solo nel confessionale, ma che non si traduce in un aiuto alla magistratura è stato avallato da un atteggiamento di comprensione dei sacerdoti. Eppure mi sembra una distorsione eccessiva della parabola della pecorella smarrita salvare le anime di un Aglieri o un Provenzano senza voler convertire al messaggio evangelico gli uomini Aglieri e Provenzano.

    È uno stratagemma da sempre utilizzato dai mafiosi che sostengono di non avere alcuna fiducia nella giustizia terrena, preferendo ad essa quella divina. Sono pertanto propensi a pentirsi davanti a Dio, ma non davanti agli uomini. Ci sono stati sacerdoti, vescovi che hanno avallato questo modo di interpretare la giustizia. Ci sono invece altri uomini di Chiesa, secondo i quali la conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione storica ed esige comunque la riparazione. Bisognerebbe avere il coraggio di dire: voi mafiosi non avrete l’assoluzione se non vi riconcilierete con lo Stato, la collettività.

    L’ex vescovo di Locri, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, attuale arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, ha incitato i fedeli a disinteressarsi di “incontri e patti legali” che possono avvenire nel santuario di Polsi. “Sono cose che non ci riguardano, a noi interessa contemplare il volto materno di Maria”. Possibile che nel volto materno di Maria ci siano aborto, matrimoni omosessuali, fecondazione assistita, ma non sopraffazione e violenza? Possibile, anzi, accettabile, che in prima linea sfilino nelle processioni religiose gli stessi uomini che dicono di poter togliere la vita a loro piacimento come Dio?

    La Chiesa in Calabria negli ultimi tempi ha imboccato una strada diversa. Ha cominciato a fare chiarezza sulle modalità organizzative delle processioni e di altri riti religiosi. C’è ancora tanto da fare, ma non penso che i cattolici debbano limitarsi a contemplare il volto materno di Maria.

    Che la Chiesa sia una “spina nel fianco” per i mafiosi, chiede monsignor Ravasi. Le trascrizioni dilazionate di matrimoni di latitanti, il nome di camorristi benefattori sui banchi delle chiese, il riciclaggio di denaro ad opera di Cosa Nostra tramite lo Ior, il pizzo travestito da offerta per far fermare la candelora durante la festa di Sant’Agata, la nomina di Giulio Lampada del clan Condello a cavaliere dell’ordine vaticano dei cavalieri di San Silvestro Papa: basta a dimenticare e contrastare tutto questo il “convertitevi” del Papa?

     No. Certamente no. L’appello alla conversione non basta. Così come non basta la scomunica di Papa Francesco. Bisognerebbe verificare l’applicabilità della scomunica nelle varie diocesi, capire chi ha imboccato la strada indicata dal Pontefice e chi ancora no. Il rischio è che in Chiesa, proprio per la sua grandezza, ognuno continui a starci dentro a modo proprio. Come temeva Leonardo Sciascia.

    Articolo apparso su “360° – Il giornale con l’Università intorno”, n.01, settembre 2015, anno XIV.