Ilaria Capua è una scienziata italiana di fama internazionale specializzata in virologia. Una carriera brillante, costellata di riconoscimenti e assegnazioni di importanti funzioni nel campo della ricerca, oggetto di stima e di ammirazione da parte di studiosi e ricercatori. Poi di colpo una doccia fredda: il coinvolgimento in un processo penale, nel ambito del quale viene accusata di aver preso parte ad un associazione a delinquere finalizzata ad un commercio clandestino di virus molto pericolosi e di relativi farmaci per combatterli. Insomma, su una vita caratterizzata da successi e soddisfazioni, improvvisamente piomba l’ombra di una possibile sanzione penale e di una vicenda giudiziaria durata due lunghi anni, con una conseguente pressione mediatica difficile da sopportare. Sentendo irreparabilmente compromessa la propria credibilità, la dott.ssa Capua decide, inoltre, anche di dimettersi dal Parlamento, nel quale era stata eletta tra le liste di una scelta civica. Alla fine arriva il proscioglimento da tutte le accuse, ma ormai la dott.ssa Capua, per tenere al riparo dall’attenzione ossessiva dei media sé e la sua famiglia, ha deciso di trasferirsi in Florida dove è stata chiamata a dirigere un importante centro di ricerca. Noi di 360° l’abbiamo intervistata.
Durante lo svolgimento del processo che l’ha coinvolta, è stato più doloroso appurare la lentezza con cui il sistema giudiziario italiano procedeva, con la conseguente pressione mediatica e psicologica alla quale è stata sottoposta, o appurare, come da lei stessa dichiarato, di essere “stata lasciata sola” da tante persone, anche in parlamento?
Guardi, sono delle situazioni entrambe pesanti da sopportare, ma se proprio dovessi dire quella che mi ha fatto più soffrire, è che io fossi completamente impotente di fronte a delle accuse gravissime e che nessuno potesse darmi rassicurazioni soprattutto sui tempi. Quello che mi veniva detto era, infatti, “dipende, dipende, è facoltà del giudice”. A pesare, quindi era la situazione di incertezza in cui mi trovavo rispetto alle procedure, in quanto una persona che sia accusata e indagata, come lo ero io, può rimanere tale per anni, per cui da questo punto di vista, tutto sommato, penso che io sia anche stata “fortunata” . Riguardo al fatto di esser stata lasciata da sola dal Parlamento, io credo sia importante non essere abbandonata da chi ti vuole bene, come la tua famiglia e i tuoi amici. E anche all’ interno del Parlamento c’erano delle persone che mi sono state vicine e che non hanno assolutamente mostrato indifferenza. C’è da dire, però, che il fatto che si mostri indifferenza verso una vicenda del genere, delinea i connotati di quell’ambiente: per cui alla fine quello che ti succede sono affari tuoi. Ciò nonostante, in tale caso si trattasse di una vicenda pubblica, non attinente solo alla sfera privata. Quindi prima di assumere determinati atteggiamenti sarebbe bastato documentarsi sulle carte e magari, andare a leggere anche il mio curriculum per capire chi sono.
La sua esperienza di vita probabilmente rappresenta un modello per la maggior parte dei giovani ricercatori e studiosi italiani, fiduciosi nella possibilità di costruirsi un futuro, in cui poter fare uso delle proprie conoscenze per mettersi in gioco e realizzare i propri sogni. Come lei stessa ha detto durante la conferenza tenutasi alla Luiss, nonostante il nostro paese, per una serie di motivi, non sia attrattivo per giovani ricercatori, per realizzare i propri sogni bisogna essere determinati e credere fino in fondo in ciò che si fa. Questo vuol dire che un giovane ricercatore italiano, se crede nei propri progetti, ha la possibilità di riuscire a realizzarli anche rimanendo in Italia o è comunque necessaria una esperienza all’estero?
Tanto per cominciare io direi che proprio la Luiss potrebbe lanciare un appello a smetterla di parlare di “fuga dei cervelli” , per parlare, invece di ” circolazione di cervelli”. Questo in quanto i cervelli devono muoversi e ciò non deve essere letto come una emigrazione, ma come una opportunità di apprendimento di una lingua e di un modo di lavorare diverso, oltre che di approfondire gli studi in settori che, magari, in altri paesi sono più sviluppati. Così, ad esempio, i ricercatori francesi, inglesi o tedeschi non sviluppano la loro formazione solo nel loro paese, ma girando. Ora, quello che l’Italia deve fare è, oltre che promuovere il movimento dei cervelli, diventare attrattiva per far sì che questi cervelli poi tornino indietro. Questo lo si fa creando delle caselle specifiche, sulla base anche dei finanziamenti di cui si può disporre, per attirare i ricercatori italiani ma anche quelli stranieri. Infatti questo è il limite del nostro paese: che non solo non rientrano gli italiani ,ma non arrivano neanche gli stranieri. Ad esempio, dove lavoro attualmente, su dieci persone se ne incontra una americana. Oggi viviamo in un mondo in cui c’è una possibilità di muoversi molto più elevata rispetto al passato e in cui ci sono delle “positions” disponibili per i giovani presso laboratori esteri; tutto ciò fa da stimolo alla circolazione dei cervelli, dunque è assurdo pensare che un italiano possa formarsi rimanendo sempre in Italia. Questo perché altrimenti sarebbe un ricercatore fallito, in quanto la ricerca è per natura interculturale e, dunque, deve essere svolta da persone che abbiano provenienze diverse dal punto di vista culturale, geografico e religioso. Quindi io direi che è arrivata l’ora di smetterla di lamentarsi del fatto che, per esempio, i propri figli siano stati “costretti” a andare fuori per studiare, perché , invece, è una fortuna che ciò sia possibile. Per cui mi pare eccessivamente autoflagellante questo atteggiamento che attualmente vi è in Italia, dal momento che la circolazione dei cervelli è un fenomeno che interessa tutti i paesi.
Quindi, secondo lei, il nostro paese dovrebbe cominciare a darsi da fare per entrare in quel circuito di paesi che, in un’ottica globalizzata, offrono agli studenti la possibilità di formarsi nel proprio territorio?
Esatto, assolutamente.
Lei ha ribadito che aver accettato il suo nuovo incarico nel Centro di Ricerca in Florida, non sarebbe equivalso a “sbattere la porta in faccia all’Italia”: questo vuol dire che la sua esperienza professionale di ricercatrice e studiosa, in futuro, nel nostro paese potrebbe avere un nuovo inizio?”
Questo significa che continuerò a collaborare con i centri di ricerca italiani anche durante questa mia “parentesi americana”. Se poi questa mia “parentesi” duri solo qualche anno o tutta la vita non sono in grado di dirlo. Poi può anche darsi che torni in Italia, ma tutto è possibile nella vita: io stessa mai avrei immaginato che sarei venuta a lavorare qua. Quindi, non focalizzerei l’attenzione su questo, perch paradossalmente potrei fare molto di più per i ragazzi italiani da qui, che non se fossi rimasta nel nostro paese. Di certo, io ho avuto molto dall’Italia: mi sono formata lì, sono uno scienziato made in Italy e ho sempre portato con me l’orgoglio di essere una donna italiana, per cui rimango a disposizione dell’Italia per collaborare con il mio gruppo di ricerca.