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[dropcap]S[/dropcap]ono stato al Macro di piazza Giustiniani per la prima volta qualche settimana fa, in occasione del MEI, cioè i premi degli artisti Indie Pendenti, e mi ero divertito così tanto a comprare magliette da quindicenne che sono stato contentissimo di tornarci, questo 21 febbraio. La prima impressione che lascia la factory di Testaccio, ricavata da un ex mattatoio, è quella di trovarsi a chilometri da Roma, nell’ombelico culturale dell’Europa dove la media borghesia post-adolescenziale va a travestirsi da raffinata cittadina del mondo. Poi però aspetti trentacinque minuti sotto la pioggia che arrivi il 719, carico come un carro bestiame, e ti ricordi di essere ancora in Italia. Se vuoi fare l’hipster vattene da un’altra parte: qua giochiamo la vita in modalità hardcore. L’estremo tentativo di mantenere attorno al posto un sentore di Tate o MoMa appena appena farlocco avviene con metodi e risultati discutibili, ma di questo parleremo più avanti.

In breve: con un sapiente gioco di “conosco-una-che-conosce-uno” ci imbuchiamo al Retina Festival, la due-giorni capitolina che raccoglie il lavoro di videomaker di tutto il mondo con proiezioni, conferenze, dibattiti a tema “Cos’è cambiato nella videoarte dagli anni ’90 ad oggi”. All’ingresso ci tocca compilare dei fogli con i dati personali che ci consentiranno di entrare a far parte della mailing list di Arteintelligent.org, l’associazione che ha messo in piedi la baracca: senza, non si può entrare.

Sento distintamente le urla di dolore del mio filtro antispam.

Sfiliamo per un corridoio ricavato da due file di pannelli di compensato bianco, sorvegliato dall’immancabile buttafuori imbruttito e pelato che, imbruttito e pelato, ci appiccica i nostri bei braccialetti arancioni per poter entrare ed uscire quando ci pare. La sala è immersa in una tenebra poco rassicurante, rischiarata solo dall’azzurrino degli schermi su cui si susseguono clip dei video in esposizione. Appena dentro, queste sono le immagini che ci troviamo davanti

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Bocche-tetta. L’arte è così tanta che sto per avere un mancamento, ma mi faccio forza ed andiamo avanti. Veniamo presentati alla direttrice artistica: bassina, viso delicato, voce dolce da maestra dell’asilo, stato confusionale da stress. Quello che mi colpisce subito è il modo di salutare: da qui in avanti scoprirò che, oltre a parlare ad un volume di voce che rasenta il monologo interiore, i video-artists e i loro amici si presentano porgendo gelide orate morte alla mia stretta di mano.

La signorina ci spiega che la mostra vuole porsi come punto d’incontro per artigiani dell’immagine “da tutti e quattro i continenti”, e lo fa con tanta affabilità da impedirmi di avere il cuore di spiegarle che i continenti sono cinque. Le opere sono organizzate per sale tematiche: bàdi (corpo), mèmori (memoria), abstràccio (astrazione) e persèccio (percezione). In effetti nella sala “percezione” il fil rouge della rappresentazione artistica ci appare subito chiarissimo: sei minuti di quadratini stile Windows 95 che compongono una piramide con un sottofondo di macchina da scrivere. La gente ha questa espressione qua

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Sono convinto che il problema sia solo mio, quindi provo ad approcciarmi a qualcosa di più immediato, come il corpo. Mi accolgono altri sei minuti di inquadratura sfocata su un filo che sale all’infinito, verso chissà dove. L’atmosfera è densa di un augusto e religioso silenzio contemplativo. Dio, quanto vorrei avere un sacchetto gigante di Crik Crok qui, ora.

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Improvvisamente le sale si svuotano, ma invece di andarsi a suicidare tutti prendono posto davanti ad un palco, dove a breve avrà luogo la conferenza sul nocciolo della questione, di cui ho parlato prima. La capessa dei conferenzieri è Valentina Valentini, professoressa universitaria ed esperta di arte e spettacolo. Scopro tra l’altro che è relatrice accademica del lavoro finale di quasi tutti gli artisti italiani qui presenti e gode evidentemente di un rispetto e un’ammirazione generali che lasciano intendere abbia molto più da dare all’uditorio della sua canuta capigliatura da maschiaccio corredata da scialle di seta. Prende il microfono.

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“Ma a te interessa quello che sta dicendo?”

“No.”

“Appunto, neanche a me”.

Alle mie spalle è appena avvenuto questo scambio di battute tra due gentili fanciulle, che dopo aver fatto presente all’intera sala il loro disprezzo per il contributo della professoressa, si allontanano a passo di Tirannosaurus Rex sui tacchi. La cosa mi distoglie dalla spiegazione in corso, e nella mia testa di zappaterra senza rimedio si fa strada una riflessione. Una riflessione che ha a che fare con questa persona qui.

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Questa caricatura di un critico d’arte si è costruito la propria fama -e probabilmente anche un paio di ville- con i proventi pubblicitari di un canale Sky e uno YouTube, su cui ha schiaffato decine di relitti umani farneticanti che credevano, in qualche misura, di essere dei creativi. Pittori di croste in procinto di rendere l’anima, vecchi bavosi, modelle fetish sfatte dall’età, leghisti della Bassa con velleità da rapper. La sua crassa ignoranza, il suo fare mellifluo sono stati capaci di infiocchettare un carrozzone di immondizia con cui dare vita alla grottesca replica di un club intellettuale.

Tutto al mondo accade per un motivo -per quanto misterioso- e mi ero già interrogato in passato su quale fosse la ragion d’essere di Andrea Diprè. Un’occasione sociale come il Retina Festival può diventare facilmente un canale di dialogo tra gli artisti e il loro pubblico, attirare i fruitori di altri generi, contaminarsi e contaminare, suscitare la curiosità esterna. La curiosità di una bestia come me, che davanti ad un cartello del genere non sa se si tratti di un’installazione o di una struttura pericolante.

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Invece quel che ho percepito nei frammenti di conversazione tra i presenti, negli sguardi sprezzanti e nelle spiegazioni svogliate, è stata la rabbia compiaciuta di chi fa mostra di sé nella speranza di non essere compreso.

Il linguaggio è la manifestazione fisiologica di un gruppo sociale, ma non deve trasformarsi in espediente di isolamento. Quando il faccione sudato di Andrea Diprè ci propone Franca Kodi, Paniccia o l’Eminem veneto, sta cercando di rassicurarci, dimostrando che gli artisti sono uomini e che umano è il loro prodotto. Che sono tra noi, che possiamo toccarli e riconoscervi le stesse miserie che ci affliggono. Diprè è la risposta isterica ad un mondo che ha deciso di parlare solo di se stesso e con se stesso.

Il video come forma d’arte, l’inquadratura che si trasforma in ritratto e il loop eterno di immagini che condensano la tensione artistica e la fredda obiettività della macchina da presa sono caratteristiche uniche, proprie di un mondo trasversale a cinema e letteratura come è la videoarte. Ma basta calarli in un contesto autoreferenziale perché scivolino nella piéce involontariamente comica, nel ripetersi di tic ossessivi e privi di significato che non suscitano nulla più della risata liberatoria di chi se ne sente escluso.

E il Retina Festival può, e probabilmente deve, essere molto più di questo: per farlo occorre uscire dai musei e parlare senza un copione in mano. Sfrontati, reali, come l’accozzaglia di Diprè è riuscita ad essere, pur senza avere nulla da dire. Se non saranno gli artisti a ridarci l’arte, speriamo almeno che resti qualcuno a raccontare come stavano le cose prima.

 

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