Sulla tangenziale semideserta, dopo le tre, scorrono poche macchine.

Imboccata la rampa, girando il volante con una mano, gli occhi socchiusi e le labbra bagnate, l’immagine che si scorge è una strada illuminata dalla luce dei lampioni e da quella naturale delle stelle, in secondo piano.
La strada è piena di buche, scostante, dissestata. La mia mente è affollata da pensieri nei quali, come una ruota in una buca imprevista, inciampo senza volerlo, dannandomi per non aver sterzato.
In certe condizioni, questa strada mi pone la sfida di non proseguire mai dritto, accomodandomi su un tratto d’asfalto più asciutto e lineare: come tutte le strade di Roma, l’imprevisto è dietro l’angolo, magari dove non c’è illuminazione e dove non si dovrebbe mai passare, perché lì si accendono gli abbaglianti. Mai fidarsi della strada ciecamente, è l’errore più grossolano che si possa fare.
Padrone del volante, padrone della mia vita. L’imprevisto è dietro l’angolo. La luce arancione che vedo offuscata sul cruscotto segna 130 km/h: non c’è limite su una strada deserta, dopo le tre di notte, è una regola non scritta. Chi dovesse dire che ho torto, ha paura di vivere.
La musica è a alto volume, forse troppo. Mi fa perdere terreno con l’asfalto, la razionalità. Ma quell’aberrante ritmo, fra tonfi, sterzate improvvise, giochi di ombre, luci, suoni che mi inebriano, rendono quella strada dissestata quasi divertente.

Luce e ombra. Un confine quasi tangibile ma, allo stesso tempo, impercettibile. Troppo veloce. Sull’onda inarrestabile delle mie quattro ruote.
Sulla tangenziale semideserta, dopo le tre, scorrono poche macchine. La strada non c’è più, non c’è più un fondo sul quale scorrono impetuose. Non sarà un tratto poco lineare a fermarle.
Non ci sono più nemmeno io: c’è solo una linea bianca tratteggiata che scorre dietro di me. Me la lascio alle spalle. Ormai è passato. E’ passata. Ma come rimpiango tutto ciò.
Davanti a me, fra qualche chilometro, fra qualche ora, si profilerà una nuova alba, un nuovo giorno. Ma alle mie spalle, fino a qualche ora prima, una luce arancione colorava il mio specchietto retrovisore. A quella velocità non posso pensare di mettere la retromarcia e rallentare.
Il tempo non mette la retromarcia. Va dritto spedito fino a che non ci fa innamorare, per poi rallentare, riaccelerare. Non lo puoi fermare. Forse è meglio così.
Perché fermarsi? Perché fermare quelle quattro ruote non dominabili da nessuno se non da noi stessi, per tornare indietro? Quelle ruote che tanta strada, orgogliosamente, hanno solcato. Forse ricapiterà loro di ripercorrerle, in un’altra notte solitaria e luminosa. E non sarà mai lo stesso.
Uno stradone con nessuno davanti, con nessuno alla nostre spalle. Nessuno che guida: solo uno sfondo che scorre davanti a noi confuso, ebbro di emozioni, veloce, irrazionale, a destra e a sinistra, incontro a noi. Ci porta dove le strade non hanno nome, perché non le conosciamo ancora, perché vogliono anche loro, per un istante, essere solcate dalla nostra impavida velocità, una notte.
E non sarà mai lo stesso. Perché è inutile voltarsi o mettere la retro. Un’invisibile forza d’inerzia ci spinge avanti, spesso contro la nostra volontà sconfinata.

Sulla tangenziale semideserta, dopo le tre, scorrono poche macchine.
Quante volte vorremmo tornare indietro per prendere quell’uscita che non abbiamo preso e vedere dove ci avrebbe portato?
Quante volte avremmo voluto prendere quel rosso, senza dare importanza all’incrocio, ma solo alla strada che ci aspetta davanti a noi?
Quante volte avremmo voluto giungere a quella meta, così rischiosa, piena di ostacoli, così timorosi mentre ci avviniamo, ma allo stesso tempo così desiderosi di arrivarci?
Quante volte avremmo voluto fermarci sul ciglio della strada, guardare quanta strada abbiamo percorso e non badare ad altro, non pensare al poco tempo rimasto per giungere a destinazione?
Invece no.
Una voce dentro di noi ci dice l’opposto. La nostra storia non è scritta. Il nostro destino non è fissato. Una pagina di un libro non finisce mai all’ultima riga. Una partita non finisce mai all’ultimo minuto.
Una strada, non finisce mai.
Perché ci ostiniamo ancora a proseguire lungo quella strada?
Perché poi, rimpiangiamo il viaggio?
Interrogativi senza sosta e senza risposta, intervallano il mio percorso, sotto luci che si alternano davanti a me. Cosi malinconico e dubbioso, consapevole del lungo cammino percorso finora, proseguo, non pensando più a nulla.
Sulla tangenziale semideserta, dopo le tre, scorrono poche macchine. Forse dovrei rallentare, guardare avanti e tenere il volante a due mani.
Forse dovrei essere più razionale, pensare meno e tornare a casa prima.
Roma, 27 marzo 2018