De Niro

Gli hanno infilato i guantoni da box, perché doveva interpretare Jake La Motta. E lui ha vinto due veri incontri a Brooklyn. Gli hanno dato la parte di Don Vito Corleone, e lui ha imparato in sei mesi il dialetto siciliano. Gli hanno detto di interpretare un ex galeotto (in “Cape fear”, 1992). Lui si è riempito il corpo di tatuaggi e ha speso 25 mila dollari per annerirsi i denti. Sul set di “Taxi driver”, lo misero davanti a uno specchio e lui, semplicemente, improvvisò. Scrivendo un pezzo di storia del cinema. Perché Robert De Niro faceva sembrare tutto semplice. Perché Robert De Niro non recitava, lui diventava i suoi personaggi.

“Robert De Niro si butta nel film e nel ruolo assumendo la personalità del personaggio con la stessa naturalezza con cui uno potrebbe infilare un cappotto, mentre Clint Eastwood indossa un’armatura e abbassa la visiera con uno scatto rugginoso” – disse Sergio Leone, che lo diresse in “C’era una volta in America” – “Bobby, prima di tutto, è un attore. Clint, prima di tutto, è un divo. Bobby soffre, Clint sbadiglia”. Versatile, espressivo, istrionico. Un cineasta a tutto tondo: oltre che interprete, è stato anche regista e produttore, nonché fondatore del “Tribeca film festival”. Massimo esponente del metodo Stanislavskij; maniacale, quasi fanatico nella ricerca del punto di contatto fra il proprio mondo interiore e quello del personaggio. Capace di ingrassare 30 kili, mettendo a repentaglio la propria salute, per mettere in scena un Jake La Motta in declino, nel capolavoro scorsesiano “Toro scatenato”, e dando vita ad una delle più grandi performance di sempre. Ha preso parte ad ogni genere di film, dal dramma all’ action movie, dalla commedia romantica all’horror, pur legando indissolubilmente il proprio nome al genere gangster. E poi, sempre convincente; nelle vesti di protagonista assoluto o comparendo soltanto in poche scene (pensiamo al “suo” Al Capone ne “Gli intoccabili”), quando interpreta uno psicopatico o un malato, un padre di famiglia o un killer senza scrupoli. Quando piange nel “Cacciatore” e quando ride, quasi con gli occhi, nel finale di “C’era una volta in America”. Ha lavorato con i migliori registi, tra gli anni ’70 e ’80, prendendo parte alle pellicole più influenti dell’epoca: Francis Ford Coppola, Brian De Palma, Sergio Leone, Bernardo Bertolucci, Micheal Cimino. Ma soprattutto l’amico Scorsese. E non solo. Perché De Niro, semplicemente, era il migliore, in quegli anni. Era una certezza. Come lo era stato Marlon Brando per la generazione precedente, ma senza le manie da divo che contraddistinsero quest’ultimo.

Il successo fu immediato e a meno di 40 anni poteva già vantare due premi Oscar e l’accesso all’Olimpo dei più grandi attori in assoluto. Eppure dopo il ventennio che si protrae dall’inizio degli anni ’70 fino a “Casinó” del 1995, inizia una fase segnata dal graduale abbandono dei personaggi complessi psicologicamente che avevano caratterizzato la sua lungimirante carriera, prediligendo ruoli marginali, film commerciali, commedie (anche poco brillanti) e mediocri action movie, concentrandosi sulla produzione e su altre attività al di fuori della recitazione. Una domanda sorge a questo punto spontanea: perché? Perché rifiutare ruoli di un certo spessore e preferire la quantità alla qualità? Per mancanza di stimoli (e di amor proprio…)? Forse. O forse la presa di coscienza di aver dato tutto ciò che poteva, di non essere più lo stesso. Eppure soltanto nel 2013 ha ricevuto l’ultima nomination al premio più ambito per “Il lato positivo”. La soluzione che persuade maggiormente coincide, forse, con quella più romantica. Bobby è un nostalgico. Sa di non aver dato tutto ciò che poteva, ma sa di aver dato il meglio. Bobby sa di poter ancora essere un grande attore, ma non il più grande, non il migliore. Non più. Sa che le grandi pellicole del periodo della “Nuova Hollywood”, conclusosi negli anni ’80, fanno parte del passato e che, superati i settant’anni, non si è più adatti ad impersonare il sociopatico di Taxi Driver oppure un giovane gangster. È consapevole che è terminato il suo ventennio. Il ventennio in cui Hollywood tremava sentendo il suo nome. Robert De Niro. L’attore che tutti i registi volevano dirigere, con cui tutti volevano recitare. L’attore di cui tutti i film hanno bisogno. Uno che non recitava di soffrire. Soffriva.