“Il Ddl Zan è davvero necessario?”; “E’ una legge che vieta la libertà di opinione?”; “Attribuisce maggiori diritti agli omosessuali rispetto agli eterosessuali?”.
Queste ed altre domande, più o meno bizzarre, affollano da mesi la carta stampata, i quotidiani online e i talk televisivi del nostro Paese.

Per una analisi avulsa da frettolose semplificazioni, occorre distinguere l’aspetto politico da quello squisitamente normativo e procedurale che interesserebbe l’entrata in vigore del disegno di legge in questione. La sensazione è che la proposta legislativa in ambito politico, sia stata utilizzata per difendere i “valori” di uno schieramento, in antitesi a quelli dell’altro, andando a travalicare il dato letterale e l’apporto “effettivo” della norma stessa.
La ratio della previsione è quella di ampliare la tutela di persone che, per motivi di orientamento sessuale o disabilità, in estrema sintesi, potrebbero essere oggetto di violenze fondate appunto su tali “caratteri”.
Non siamo di fronte ad una censura della libertà di pensiero, ma ad una previsione di aggravante nel novero del diritto penale per chi commette violenza ai danni di una persona omosessuale, transessuale o disabile. La legge Zan, introducendo questa previsione, porrebbe sul medesimo piano la discriminazione per orientamento sessuale, identità di genere e disabilità a quella razziale, etnica e religiosa, intervenendo su due punti del Codice penale attraverso un’aggiunta alla già esistente legge Mancino-Reale (1992).
Si configurerebbe così un’ipotesi di crimine d’odio del tutto speculare a quelle già previste da quest’ultima norma. Sarebbe da respingere dunque la tesi di chi sostiene che “virtualmente” sarebbe già punibile, con aggravante di “motivi futili o abbietti” (art. 61 c.p.) colui che causa lesione grave (583 c.p.) ad un soggetto in quanto omosessuale. Se per sillogismo ammettessimo un “doppione” tra l’esempio in oggetto e la previsione del Ddl Zan, andremmo anche a negare la ratio stessa della legge Mancino-Reale e i relativi crimini d’odio ivi previsti.
La legge Zan non introduce inoltre, in fatto e in diritto, alcuna compressione di diritti o libertà altrui. Riprendendo l’esempio fatto sopra e ipotizzando la vigenza della legge in commento, se una persona aggredisce fisicamente, provocando una malattia del corpo o delle mente un soggetto poiché omosessuale, andrebbe incontro ad ipotesi di lesioni gravi con aggravante derivante dal motivo d’odio per l’orientamento sessuale. Se invece quella stessa persona si “limitasse” a sostenere, anche pubblicamente di fronte ad una folla, che “gli omosessuali sono pericolosi” non sarebbe sanzionabile in base alla legge Zan. Questo induce a comprendere che non si tratta di un “bavaglio” alla libera opinione, ancorché si esprima un parere eticamente discutibile. Si tratta invece unicamente di garantire una tutela “rafforzata” ad alcuni “soggetti deboli”.

Sebbene la libertà di espressione non venga lesa, giova ricordare che peraltro la stessa non è illimitata. La giurisprudenza nazionale, allineandosi alla già consolidata giurisprudenza della CEDU, prevede che il diritto di esprimere il proprio pensiero può essere limitato per tutelare i diritti e le libertà altrui (artt. 9 e 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Il “bilanciamento di diritti” si pone nell’ottica di comporre la controversia tra diritto/libertà di esprimere il proprio pensiero e il rispetto del diritto altrui in particolare della dignità umana e il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge a prescindere dalle caratteristiche personali e sociali.
Appare corretto inoltre ricordare che le definizioni di cui all’art. 1 della legge Zan, in cui viene definito che cosa si intenda per “genere” “sesso” e “identità di genere”, sono previste «ai fini della presente legge». Questo per recidere sul nascere qualsiasi speculazione circa la “confusione” che lo “sdoganamento” di tali termini (di ampio respiro) possa portare. Termini peraltro utilizzati nel linguaggio comune spesso in maniera impropria.
Risulta quindi lecito domandarsi: perché di fronte alla possibilità di tutelare maggiormente un individuo, “rafforzando” i suoi diritti e dando piena attuazione al dettato costituzionale (art.3), ci si dovrebbe opporre? L’interrogativo, come evidenziato in premessa, è meramente politico e non certamente etico o giuridico.
Ciò che è certo, è che non è necessario appartenere ad un credo religioso per difendere il diritto di culto; non è necessario essere donne per difendere la parità di genere; non è necessario essere gay, transessuali o disabili per sostenere un’aggravante per i relativi crimini d’odio. In definitiva non serve appartenere a nessuna scuola di pensiero per difendere la giusta causa dei diritti umani.