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Non avveniva dalla guerra del 1812, quando gli inglesi diedero fuoco al Campidoglio, che le sale del potere venissero prese d’assalto. Finestre spaccate e folle di protestanti che spingono di massa contro le porte d’ingresso. La polizia, scarseggiante in numero e spesso in volontà.

Cinque decessi. Tra teorie del complotto e assurde convinzioni, un gregge di devoti spinto dal volere del loro messia di compiere la “loro giustizia”. Questa è la storia del giorno in cui un leader e i suoi soldatini hanno messo a repentaglio l’esistenza stessa della loro democrazia.

da lavocedinewyork.com

Mercoledì 6 gennaio. Il Presidente Trump, ormai agli sgoccioli della sua amministrazione, che terminerà ufficialmente il 20 gennaio con l’insediamento di Joseph R. Biden Jr., proprio non ce la fa ad accettare la sconfitta.

La giornata dell’epifania comincia molto presto per i devoti sostenitori del presidente, che per tutta la notte attendono in coda con la speranza di riuscire ad accedere al rally che si terrà al mattino alla White House Ellipse.

Trump sa che questa è la sua ultima possibilità per tentare di ribaltare il risultato delle elezioni. Infatti, proprio mentre si trova su un palco ad incitare i suoi sostenitori, il Congresso, in sessione congiunta, sta ultimando il conteggio dei voti espressi dal Collegio Elettorale che dichiareranno, con una presa di posizione definitiva, il futuro Presidente degli Stati Uniti.

Mike Pence, come Vicepresidente e Presidente del Senato, è incaricato di presiedere la seduta. Il giorno precedente, Trump aveva discusso con Pence riguardo a ciò che sarebbe avvenuto il giorno seguente, desiderando che il vicepresidente stesso ribaltasse i risultati delle elezioni.

Quest’ultimo però gli aveva comunicato di non avere il potere di prendere una decisione unilaterale per compiacere il presidente e che a tale riguardo avrebbe presentato al Congresso una lettera scritta da lui. Viene accusato da Trump di essere un debole e il suo operato da vicepresidente viene messo in discussione dal presidente stesso.

La “Save America March” comincia ufficialmente alle 9 del mattino, ma Trump si presenta sul palco solo intorno a mezzogiorno, introducendo i soliti discorsi intrisi di vittimismo – che ruotano intorno all’idea di essere stato vittima di frode elettorale – ed esortando i partecipanti a diventare “parte della storia!” con un valoroso atto di devozione al loro messia.

I motti seguono sempre la stessa linea: #MarchForTrump #StopTheSteal e #DoNotCertify.

Il presidente promette di “never concede”, non cedere mai, affermando che il trasferimento di potere che avrà luogo tra undici giorni porterà alla distruzione del paese.

Trump continua ribadendo che nessuno di loro vuole che l’elezione sia rubata da “democratici spavaldi e radicali”. Affermando ulteriormente che le elezioni nei paesi del terzo mondo siano più oneste e che lui non permetterà mai che le loro voci vengano silenziate, il leader infuoca gli spiriti dei suoi sostenitori e li incita a prendere parte ad una vera e propria crociata populista. Riguardo al suo vice, Trump afferma:

“Spero che Mike faccia la cosa giusta. Lo spero. Lo spero, perché se Mike Pence fa la cosa giusta, noi vinciamo le elezioni”

aggiungendo che uno dei migliori avvocati costituzionalisti del paese gli aveva riferito che il vicepresidente ha il diritto assoluto di capovolgere i risultati delle elezioni, l’ennesima fake news.

Nel frattempo, Pence sta leggendo la sua lettera scritta per il Congresso. Quest’ultima afferma che, dovute le insinuazioni di frode elettorale, alcuni credono che lui, in veste di vicepresidente, sia in grado di accettare o rifiutare i risultati delle elezioni unilateralmente. Pence prosegue dicendo che, dopo aver studiato attentamente la Costituzione, non trova questa visione corretta e dato che la presidenza appartiene al popolo americano e solo ad esso, che siano i rappresentati del popolo a rivedere le evidenze e a risolvere la disputa attraverso un processo democratico.

E con queste parole giuste e sagge, Trump perde anche il suo “Loyal No. 2”. Ora le richieste porte ai suoi sostenitori prendono una piaga tristemente più specifica.

“Vogliamo essere rispettosi di tutti ma dovremo combattere molto più duramente. E Mike Pence dovrà venire per noi, e se non lo farà, sarà un giorno triste per il nostro paese. Perché hai giurato di sostenere la nostra Costituzione.”

Trump definisce il risultato delle elezioni un egregio assalto alla democrazia ed esorta apertamente i suoi sostenitori a “walk down to the Capitol”, marciare verso il Campidoglio, “perché non ci riprenderemo mai il nostro paese con la debolezza”.

Ovviamente Trump non accompagna i suoi sostenitori al Campidoglio, ma torna comodamente alla Casa Bianca e comincia ad attaccare Pence su Twitter e ad elogiare i suoi soldatini in marcia verso la sede del Congresso.

Per tutta la durata dell’occupazione, nonostante incoraggiato a fare altrimenti, il presidente non scoraggia i suoi sostenitori a lasciare Capitol Hill. Al contrario, pubblica due Tweet chiedendo loro semplicemente di comportarsi in modo pacifico. Uno di questi cita

“Ricordate, NOI siamo il partito della legge e dell’ordine, rispettiamo la legge e i nostri grandi uomini e donne vestiti di blu.”

Solo dopo ore e dopo aver trovato un esplosivo nella sede del Comitato Nazionale Repubblicano, Trump rilascia un videomessaggio, sempre su Twitter, chiedendo ai suoi sostenitori di lasciare Capitol Hill perché nessuno rimanga ferito ma chiudendo con “noi vi amiamo, siete molto importanti e so come vi sentite”, ribaltando nuovamente l’intenzione del messaggio e creando ancora più confusione, lasciando intendere che il suo sia un modo velato per giustificare ed offrire il proprio consenso al perpetrare dell’occupazione.

Nel primo pomeriggio, migliaia dei protestanti si congregano intorno a una barricata della polizia sul lato destro del Campidoglio e molti riescono presto a superarla ed a percorrere la salita che porta all’edificio.

La polizia risponde con gas lacrimogeni ma numericamente non può competere con i manifestanti, i quali riusciranno nel corso del pomeriggio a ferire più di cinquanta ufficiali.

La folla continua a tentare l’assalto, scalando i muri esterni del complesso. Il turning point è la rottura di una finestra che permette ai protestanti di accedere all’interno di Capitol Hill.

Poco dopo la folla riesce ad entrare anche attraverso le porte principali dell’edificio che ospita la Camera dei Rappresentanti. Appena la folla riesce ad avere libero accesso all’interno delle sale del Campidoglio, sembra di assistere alla scena del Gladiatore; “Al mio segnale, scatenate l’inferno!”.

Dal New York Times

Muniti di cellulari per riprendere le scene vissute, spesso travestiti e con gli zaini trasbordanti di qualsiasi oggetto si riuscisse ad afferrare, i soldatini di Trump vandalizzano statue e passeggiano liberamente per la Rotonda sotto gli occhi della polizia inerme, forse per volontà, forse per comando poco chiaro.

Infatti, da fonti certe riportate a Maggie Haberman, inviata del New York Times alla Casa Bianca, Trump avrebbe resistito alla richiesta di inviare la National Guard e solo grazie all’intervento dei Senior Officials ciò sarebbe stato possibile.

La polizia barrica l’entrata principale alla Camera dei Rappresentanti, dove dalla mattina si era congiunto il Congresso per il conteggio dei voti elettorali. I rappresentanti vengono forniti di maschere antigas ed è richiesto loro di evacuare l’aula.

Jason Crow, Rappresentante Democratico del Colorato, afferma che credeva che avrebbero dovuto combattere per uscire da lì. Nel frattempo, la polizia riesce a detenere poco più di una decina di membri della folla fuori dalla Camera, mentre il resto è libero di circolare indisturbato.

Dal New York Times

Un uomo con lo sguardo perso, barba incolta e giacca da taglialegna, sventola una bandiera degli Stati Confederati marciando avanti e indietro fuori dall’aula del Senato. Altri si arrampicano sulle balconate. Un altro signore mette i piedi sul tavolo dell’ufficio della Presidente del Senato Nancy Pelosi, portandosi via anche la targa di legno situata all’entrata della suite su cui è inciso il nome e sventolandola come un trofeo.

Durante l’occupazione la polizia ha fatto davvero, ma davvero, poco per fermare la folla. Un comportamento che si antepone fortemente a quello riservato per i protestanti di Black Lives Matter. Infatti, per quanto riguarda quest’ultimi i trattamenti principali negli ultimi mesi sono stati la violenza fisica da parte degli organi di polizia e l’incarcerazione.

In questo caso invece alcuni ufficiali scattano foto con i membri della folla, molti osservano passivamente, altri danno indicazioni per il bagno e rispondono alle domande poste dagli occupanti. Il New York Times racconta che quando viene chiesto perché la polizia non facesse nulla, un ufficiale ha risposto

“dobbiamo solo lasciare che facciano quello che vogliono per ora”.

Anche quando offesi verbalmente, gli ufficiali restano impassibili. Il completo fallimento delle autorità per salvaguardare il Campidoglio e i rappresentanti del popolo si prospetta un argomento di conversazione hot che si protrarrà nei prossimi giorni.

Ma non tutti gli agenti di polizia sono imputabili a queste accuse. Secondo il capo della polizia metropolitana di D.C. Robert Contee 56 ufficiali sono stati feriti. Un caso in particolare merita la nostra attenzione.

L’ufficiale di polizia Brian D. Sicknick si spegne alle ore 21:30 del 7 gennaio, a causa delle ferite riportate mentre tentava di proteggere Capitol Hill dalla folla impazzita. Dopo aver portato a termine la sua missione, tornato al suo ufficio di divisione perde i sensi e viene portato ad un ospedale nelle vicinanze.

Dal New York Times

L’ufficiale che ha donato la vita in nome della democrazia non è l’unica fatalità avvenuta durante l’assalto. Ci sono stati infatti altri quattro decessi: una donna sparata al petto in circostanze ancora poco chiare e altri tre deceduti per “emergenze mediche”.

La donna è stata identificata come Ashli Babbit, 35 anni, veterana dell’Air Force e aderente a QAnon, la teoria del complotto di estrema destra secondo cui esisterebbe una presunta trama orchestrata dal “Deep State” volta a distruggere Donald Trump.

L’assalto ha portato enormi conseguenze alla posizione di Trump in Congresso. Molti, tra cui la Presidente del Senato Nancy Pelosi e la Rappresentante alla Camera Ilhan Omar hanno chiesto al vicepresidente di appellarsi al 25esimo emendamento della Costituzione che priverebbe Trump dei poteri presidenziali per incapacità di adempiere alla carica.

Servirebbe che il vicepresidente e la maggioranza del governo si trovassero d’accordo nel proseguire in questa direzione per far si che Trump venga rimosso dalla carica prima del 20 gennaio. Ma il vicepresidente sembra rifiutarsi. Nancy Pelosi ribadisce che se il vicepresidente e il governo non agiranno, il Congresso sarà pronto a procedere con impeachment, che sarebbe il secondo dell’anno.

Alcuni membri in vista dell’attuale amministrazione hanno dato le dimissioni, in chiave simbolica visto che la fine dell’amministrazione è ormai alle porte, come Betsy DeVos, ministro dell’educazione, e Elaine Chao, ministro dei trasporti.

Dopo 24 ore dal video di Trump che esprimeva amore verso i suoi sostenitori al Campidoglio, chiamandoli “very special people”, il presidente, in un nuovo videomessaggio, si dichiara oltraggiato dalla violenza e dall’illegalità dell’assalto, aggiungendo, contrariamente a quanto riportato il giorno precedente, di aver immediatamente richiesto l’intervento della National Guard per metter in sicurezza l’edificio.

Dal New York Times

Ma tutto questo non ci impressiona più vero? Il comportamento di Trump segue un pattern ormai ben solidificato:

  1. Assumere un atteggiamento che va contro quanto richiesto dal suo ruolo;
  2. Ammutolirsi mentre si attua ciò che è stato ispirato dalle sue parole, fingendosi confuso ma continuando a mostrare il suo supporto;
  3. Dopo circa 24 ore, tornare sui propri passi ed attaccare “i suoi soldatini”.

L’ultimo punto richiederebbe che il presidente torni alla sua “politica da social media” attaccando chiunque gli passi sotto tiro, ma almeno su Facebook questo non sarà possibile finché rimarrà in carica.

Infatti, Facebook ha deciso di bloccare l’account di Trump su ognuna delle piattaforme che gli appartengono fino alla fine del suo mandato. Twitter decide di bloccare il feed del presidente solo per 12 ore. Entrambe le piattaforme prendono questa decisione a seguito delle ripetute infrazioni alle politiche di ciascuno di questi social media, sottraendo effettivamente a Trump il suo mezzo più efficace per comunicare con i suoi amati sostenitori e per esternare la “sua” verità.

Nel video rilasciato Trump ha promesso di permettere una “transizione ordinata” verso la nuova presidenza, sostenendo che questo momento richieda “guarigione e rappacificazione”.

E speriamo sia davvero così: che questa giornata definita da molti “one of the ugliest days for American democracy” rimanga solo un brutto ricordo e non un fatto sistematico, rappresentativo di una parte della popolazione succube delle fake news e delle teorie del complotto circolanti sui social media, persone stregate dal, se così si può dire, “fascino” di un uomo che negli ultimi quattro anni è stato solo capace di ampliare divisioni già esistenti nella struttura del popolo americano.

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contributor

Caporedattrice Walk 19/20 e 20/21 Caporedattrice International 21/22