Spoiler: no. E tra poco scopriremo anche il perché. Il dibattito sull’obbligazione politica è sicuramente uno dei più antichi e fervidi nel campo della filosofia, e tutti i più grandi pensatori di ogni tempo hanno detto la loro di fronte a questo dilemma: le leggi posso essere ingiuste? E se sì, abbiamo il dovere di rispettarle comunque?
La prima grande distinzione è tra la scuola di pensiero degli assolutisti e quella dei liberali, ma la declinazione non è così superficiale come si pensa. Ma andiamo con calma. Nell’ala di estrema destra troviamo Hobbes, il padre dell’assolutismo. Per lui la risposta è semplice: il comando del sovrano, in quanto tale, è giusto per definizione. Nello stato di natura, infatti, non esiste distinzione tra giusto ed ingiusto. Solo con la creazione di un potere sovrano si potrà comprenderne la differenza. Il criterio è semplice: è giusto ciò che il sovrano comanda, è ingiusto ciò che proibisce, non spetta ai sudditi il diritto di giudicare il suo operato. Sempre assolutista, ma più moderata, è la posizione di chi crede che sì, le leggi possono essere ingiuste, ma non per questo non le si deve rispettare: gli uomini sono per loro stessa natura scaltri ed arrivisti, e potrebbero con facilità considerare sbagliata una legge in realtà giusta, solo perché danneggia la loro persona. La disobbedienza porterebbe all’anarchia. Ma che mondo orribile sarebbe se gli uomini fossero per natura malvagi e non sapessero riconoscere la vera Giustizia. Al centro invece, troviamo la posizione di chi crede che le leggi possano essere ingiuste e abbiamo il diritto di disobbedire, ma allo stesso tempo abbiamo il dovere di subirne le conseguenze. Ogni norma, infatti, ha un precetto e una sanzione: il suddito ha la possibilità di disobbedire al precetto, ma ha contemporaneamente l’obbligo di rispettare la sanzione. Spostandosi a sinistra, si colloca Locke: le leggi del sovrano possono eccome essere ingiuste e noi abbiamo pieno diritto di resistenza. Ma questo diritto è solamente naturale, cioè non corrisponde per il sovrano ad un dovere da rispettare. Lo stesso Locke ne coglie la fragilità intrinseca, che si riduce ad un futile “appello al cielo”. In suo aiuto, Montesquieu: le leggi possono essere ingiuste ed abbiamo il diritto di resistere, e questo diritto di resistenza è positivo, cioè preservato e tutelato dallo stato stesso, poiché il sovrano ha il dovere di rispettarlo. Questa è la vera liberal-democrazia in cui abbiamo la fortuna di vivere, un luogo in cui il torto subito può essere riconosciuto e salvaguardato. Le leggi positive infatti, come ci insegna il buon vecchio Aristotele, sono giuste solo se rispecchiano i diritti naturali, divini e immutabili, che devono essere tradotti nello stato civile affinché tutti possano usufruirne. Se una legge di un sovrano è in netto contrasto con quella naturale e va a ledere i diritti inalienabili dei cittadini, il popolo ha il diritto di ribellarsi: la disobbedienza civile diventa custode della giustizia.
Proprio come nel mito di Antigone, l’eroina che da sola ebbe il coraggio di contrastare leggi da lei ritenute ingiuste, da sempre simbolo della lotta contro il potere. Dopo l’uccisione dei suoi fratelli Eteocle e Polinice, un editto dello zio Creonte vieta le esequie di quest’ultimo, traditore di Tebe, il cui corpo sarebbe dovuto rimanere insepolto, sotto il sole cocente, ed essere sbranato dalle bestie. Pena per la violazione della legge: la morte. Qui arriva Antigone che, infrangendo le prescrizioni contenute nell’editto, dà una parziale sepoltura al cadavere. Non può sopportare che il proprio fratello non riceva una degna sepoltura, che il suo corpo rimanga per terra, arroventato dal sole e sbranato a pezzi da uccelli e cani. Portata di fronte al re, ammette senza esitazioni la propria colpevolezza: per lei, la legge va contro quei principi espressi da leggi non scritte ma naturali che accompagnano l’uomo da sempre. “Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte ed incrollabili degli dei”. Fu imprigionata e lasciata morire in carcere, destino di ogni grande eroina. Un’eroina romantica e solitaria, come Carola Rackete. Capitano della Sea Watch 3, nave di soccorso umanitario attiva nel Mediterraneo, da diciassette giorni attendeva, insieme a 42 migranti, il permesso di attraccare nel porto di Lampedusa. Permesso revocatogli dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e dalla Corte di Strasburgo. Ma le condizioni erano critiche, i profughi stremati. Carola non può e non vuole riportarli nell’inferno della Libia, e così disobbedisce. Cuore, e poi testa: la capitana che sfida il “capitano”. «Ho deciso di entrare nel porto di Lampedusa. Conosco i rischi, ma i naufraghi a bordo sono esausti. Li porto in salvo. […] Le loro vite sono più importanti di qualsiasi gioco politico». Verso le due di notte del 29 giugno, forzando il blocco delle motovedette, è finalmente sbarcata nel porto. È stata subito arrestata dalla Guardia di finanza, ma sa bene cosa rischia. Immigrazione clandestina, resistenza a pubblico ufficiale, violenza a nave da guerra sono i capi di accusa, fino a 13 anni di carcere, l’espulsione dal paese, 50mila euro di sanzione e il sequestro della nave le possibili pene. «Sono disposta ad andare in prigione per quello che sto facendo. Mi difenderò in tribunale, se necessario, perché quello che stiamo facendo oggi su questa nave è giusto. Sono le leggi a non esserlo».
Ma i nemici di questo atto di così nobile umanità si sono esibiti sul molo in uno spettacolo agghiacciante: «spero che ti violentino questi ne**i», «le manette, vogliamo le manette», si sente chiaramente nel video in diretta sulla pagina Facebook della Lega Lampedusa. Insulti e parole d’odio per chi ha rischiato tutto per rimanere Umana: siamo arrivati al limite del paradosso. Ma la capitana è migliore di tutti loro. “Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore”, diceva Antigone. E lo direbbe anche Carola.