Passa il tempo, ma la donna rimane un prodotto commerciale

Il prezzo? Dipende da quanto fa vendere.

Dal celebre «Chiamami Peroni, sarò la tua birra»(1971) , sussurrato da una bionda irresistibile, fino all’esplicita:«Chi mi ama, mi segua», stampato  sul retro di un paio di mini shorts indossati da una modella anonima, è la pubblicità degli anni ’70  che segna l’inizio di quel processo di commercializzazione del corpo femminile che, da allora, non si è più fermato, toccando ultimamente vertici quasi surreali.

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“Come loperaio si ritrova alienato nel suo stesso prodotto, così grosso modo la donna trova la sua alienazione nella commercializzazione del suo corpo”

Juliet Mitchell

  corpo

Quotidianamente programmi di intrattenimento, spot pubblicitari e carta stampata propongono ai loro interlocutori la solita e ormai celeberrima dicotomia: angelo del focolare contro donna esplicitamente  voluttuosa. E così ogni giorno vengono proposti o meglio imposti da un lato corpi frammentati, privi di un’identità, donne ammiccanti con una forte carica erotica; dall’altro l’estremo opposto, ovvero donne rappresentate come le uniche responsabili della gestione di ambiti familiari e domestici.

Non scioccherò quindi nessun lettore nel dire che  il corpo e lo stereotipo femminile sono da sempre utilizzati  nella pubblicità come esca comunicativa. Il  settore pubblicitario ha e continua, infatti,  ad utilizzare la donna,  o più precisamente il suo corpo, per vendere qualsiasi bene di consumo, facendo affidamento a un linguaggio ambiguo e spesso sedativo.

Com’è quindi la donna nella realtà pubblicità?

Casalinga felice, donna-oggetto, donna frammentata, così la donna viene stigmatizzata e stereotipata.

Sono stati presi alcuni provvedimenti?

Nel settembre 2008, il Parlamento Europeo ha approvato con 504 voti favorevoli la proposta di abolire la pubblicità sessista e degradante per le donne.

Ma l’Italia ha o non ha un problema di pubblicità sessista? In Italia abbiamo lo IAP,  “L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria”,  l’ente privato che dal 1966 regolamenta la comunicazione commerciale per una corretta informazione del cittadino-consumatore e una leale competizione fra le imprese. Le norme da rispettare sono contenute nel Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale e sono applicate dal Comitato di Controllo e dal Giurì. Tuttavia, contrariamente al tag che ci piace tanto,  “Italians do it better”,  il settore pubblicitario  non va.

Ecco un paio di dichiarazioni, prese dal rapporto sulla violenza di genere in Italia di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’ONU, risalenti al gennaio 2012: “Gli stereotipi di genere che determinano i ruoli di uomini e donne nella società sono profondamente radicati….” E ancora: “Con riferimento alla rappresentazione delle donne nei media, nel 2006 il 53% delle donne comparse in TV era muta; il 46% associata a temi inerenti il sesso, la moda e la bellezza; solo il 2% a temi sociali e professionali.

Nel 2005,  il Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination Against Women) si definì  “profondamente preoccupato dalla rappresentazione data delle donne da parte dei mass media e della pubblicità in Italia, ritratte come oggetto sessuale e ruoli stereotipati”.

In breve, la pubblicità italiana è considerata tra le più sessiste al mondo. Crea, sostiene e  promuove stereotipi e modelli discriminanti, relegando la donna a ruoli ipersessualizzati.

 “Serve porre dei limiti alluso del corpo della donna nella comunicazione. È inaccettabile che in questo paese ogni prodotto, dallo yogurt al dentifricio, sia veicolato attraverso il corpo della donna. In Italia le multinazionali fanno pubblicità usando il corpo delle donne mentre in Europa le stesse pubblicità sono diverse”- Laura Boldrini

Tramite l’analisi di quasi 20 mila campagne (TV, radio, affissione, stampa e banner web), uno studio , “Come la pubblicità racconta gli italiani”, ha esaminato il modo in cui uomini e donne sono raccontati nella pubblicità, identificando 12 tipologie narrative femminili e 9 maschili. Le tipologie di donna più utilizzate negli spot offrono un quadro piuttosto esplicativo. Nell’81 %  dei casi si tratta infatti di “modelle” (ideale di bellezza), “grechine” ( una bellezza decorativa che riempie un vuoto), “disponibili” (in atteggiamenti di esplicita disponibilità), “manichini” (corpo femminile o parti di esso), “ragazze interrotte” (annullate in quanto persona) e “preorgasmiche” (in espressione di piacere sessuale). Ovviamente, come prevedibile, la somma delle analoghe categorie per i maschi non arriva nemmeno al venti per cento.

Così, mentre la donna viene narrata insignificante dal punto di vista della personalità e delle competenze, il profilo dell’uomo invece sbilancia verso il lavoro. In più della metà dei casi negli spot pubblicitari il maschio è presentato come un professionista e solo  raramente come padre (nel 4,32 per cento dei casi).

La narrazione dell’universo  “femminile”  riflette davvero la società attuale italiana?

L’Articolo 1 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria afferma che “La comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare tutto ciò che possa screditarla”. Viene, dunque,spontaneo chiedersi: questa narrazione della donna italiana fatta dal settore  commerciale è davvero onesta, veritiera e corretta come dovrebbe? Rispondere a questa domanda è estremamente complesso.

Se da un lato è inutile provare a negare che l’Italia sia un paese storicamente sessista, 8° al Gap Index 2012;  dall’altro molti progressi sono stati raggiunti (basti osservare le percentuali delle laureate italiane).

Ma qual è il problema principale della mercificazione della donna?

La pubblicità non vende solo il prodotto/servizio che sponsorizza e promuove. In un paese che legge poco, la televisione è stata e continua a essere un potente fattore di costruzione dell’immaginario collettivo. Molto subdolamente, infatti, i vari spot pubblicitari, dalla TV fino ai brand su Youtube, vanno a proporre e ad imporre dei canoni estetici da rispettare per essere socialmente accettati; canoni che rendono invisibili corpi diversi  dai parametri mostrati. Le donne  devono essere giovani, belle, oggetti sessualmente disponibili con l’unico scopo di solleticare la libido maschile. Viene evocata , dunque, una presunta sensualità dell’oggetto e la donna spesso viene equiparata ad esso divenendo il prodotto stesso: abbiamo così donne paragonate ad  auto, a bottiglie di olio d’oliva o a una tariffa telefonica.

Pier Paolo Pasolini, intervista su “LEspresso”, 22 ottobre 1972:

Qui la donna è considerata a tutti gli effetti un essere inferiore: viene delegata a incarichi di importanza minima, come per esempio informare dei programmi della giornata; ed è costretta a farlo in modo mostruoso, cioè con femminilità. Ne risulta una specie di puttana che lancia al pubblico sorrisi di imbarazzante complicità e fa laidi occhietti.”

Dunque le cose possono cambiare, giusto?

10 Maggio 2016. Fa discutere il post su Facebook di Mario Turrini, candidato al Consiglio comunale per “Uniti si vince” che per fare un po’ di pubblicità alla sua corsa per Palazzo D’Accursio ha pubblicato sul social network una foto provocante: quella di una ragazza ritratta di spalle, con un maglione che le lascia scoperto il prosperoso e anonimo  ‘lato B. A fianco, si legge la scritta: “Elezioni amministrative del 5 giugno, scheda azzurra per il Comune, scrivi Turrini” e , in  basso, l’aggiunta: “La foto è servita per attirare la tua attenzione, altrimenti non l’avresti mai letto”.

Eppure gli ottimisti, come me, sperano ancora in un settore pubblicitario “onesto, veritiero e corretto” dove le donne (e ovviamente anche gli uomini) siano rappresentate per quello che sono, senza cristallizzare nell’immaginario collettivo modelli e canoni che incrementano le disuguaglianze tra sessi. Occorre aumentare la consapevolezza sulle responsabilità sociali che ha chiunque abbia accesso ai mass media. Serve diffondere un’autentica cultura della comunicazione, considerando le notevoli implicazioni sociali.

La pubblicità sessista va combattuta: è urgente e necessario Bisognerà pur cominciare a cambiare le cose.Perché non cominciare dalla pubblicità, allora?