Paralisi

La realtà di un sogno lucido

La realtà di un sogno lucido

La sensazione è la stessa di qualche giorno fa. La stessa di qualche settimana, forse mese, se non di qualche anno fa. Ma forse poco importa.

Poco importa il tempo nel momento in cui ho solamente un paio d’occhi coperti di nebbia. Come se l’aria che in questo momento sto respirando, si fosse resa densa. Posso toccare granelli di ossigeno con delle mani dissolte nei secondi che scorrono, posso afferrare manciate di sabbia trasportata dal vento, in questo deserto di sospiri.

La sensazione è la stessa dell’ultima volta in cui piansi, eccezion fatta per le lacrime, che non scendono più. È quella situazione in cui un nodo alla gola sembra carpire le vocali dalle frasi, le consonanti dalle parole, i polmoni dal mio petto. È quell’emozione che si prova nel momento in cui lo sguardo si fa meno nitido, e spostatosi dal paesaggio azzurro del cielo, cade in basso atterrito a fissare l’asfalto sotto i miei piedi, ad uno stato quasi liquido da poterci annegare.
Osservo a pochi centimetri, intorno al mio campo visivo e non vedo altro che radure spinose di edifici abbandonati. Una ringhiera divide la strada sotto la suola delle mie scarpe e un bosco verde, rigoglioso di dubbi e domande.

Io sono lì, lì nel mezzo ad attendere qualche caro amico che possa passarmi un testimone. Ma quanto tempo è passato? Sono io, sono proprio io ad essermi congelato in me stesso? Paralizzato, come in un sogno lucido, cerco di dimenarmi, per avvicinarmi alla ringhiera, ma il corpo non risponde. Ho perso ogni briciolo di mentalità, di capacità, ho perso la voglia di creare, di poter inventare una scorciatoia, fuggire.

Incomincio a gridare, ma la voce si fa fioca, le palpebre affievoliscono, ed una folata di vento spettina i miei capelli. Immagino me stesso in piedi, sotto un sole cocente, uno sfondo western, una sfida tra me e la vita. Gocce di sudore cocenti grondano dalla fronte, raggiungono labbra

Chiudo gli occhi. Muovo una gamba ed il piede avanza in queste sabbie mobili d’acciaio. L’aria è pesante come il cemento. Decido di non mollare, ma non riesco. Non riesco a reagire. Ed è lì che il piede affonda. Cado per terra, ed atterrito innalzo gli occhi al cielo, per una pietà irraggiungibile. Inizio a vedere le sagome di chi ho abbandonato, pensando di poter riuscire, con le mie forze, a raggiungere quel bosco di quesiti immobili.

Mentre annego sorrido, fingendo di poter piangere, guardando un’ultima volta quel manto reso nebbioso semplicemente da uno spiraglio di scelte sbagliate. Ma sorrido. Sorrido finché l’asfalto non abbia finito completamente di ingoiare le mie risate, perché la paralisi, ormai finita, porta via con sé la pesantezza di questi respiri.
E naufragando, inizio ad accettare questa voglia di poter ricominciare da capo. Di poter sbagliare di meno, di poter dire la cosa al momento giusto, per non masticare più amaro, ma dolce. La sensazione è diversa. Ho un corpo che cambia, una mente che cambia.

Getto fuori l’ultimo respiro chiudendo gli occhi, e riaprendoli intravedo la via giusta. Il sentimento è diverso, l’emozione è cambiata, e per quanto questo possa essere sempre l’io che conoscevo, sono pronto al cambiamento che ho voluto.
A ciò in cui mai ho creduto. A ciò in cui ho sempre sperato.
Perché è da zero. Perché è da qui che io ora voglio ricominciare.