L’era del post Erasmus-Aarhus

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Del mio Erasmus ho cercato in tutti i modi di afferrarne il tempo. Ad agosto ero partita credendo di saperne già abbastanza sulla Danimarca ed Aarhus. I danesi me li prefiguravo così simili a noi: solo un po’ più a nord dei tedeschi e un po’ più ad ovest dei russi. Che ci sarebbe stato da dire su di loro? Niente, credevo, sbagliandomi di molto. Di questi cinque mesi, che a volte mi sembra di aver trascorso in un’incantevole apnea, ho provato a conservarne il più possibile. Ho tenuto con me i biglietti del cinema e dei musei, gli spiccioli danesi, i sottobicchieri rubati nei pub. Ma quello che più desidero è che nulla di quanto ora rimasto si riduca ad una semplice sequela di storielle buffe e di fotografie adatte ad un profilo di Instagram. Dietro c’è dell’altro.

L’Erasmus sono io, io che ad un party dell’università discuto per due ore con uno studente di cinema danese su Refn (insieme a Von Trier tra i più importanti attuali registi della Danimarca) per il quale solo Drive è un buon film (un capolavoro, direi io) perché è l’unico di Refn non scritto da lui stesso, mentre io dissento (ma lo ha visto The Neon Demon?).
L’Erasmus è scoprire come in Scandinavia la fiducia che riponiamo negli altri non metta mai in luce la nostra vulnerabilità, ma invece dà un valore aggiunto alla società a cui apparteniamo. Per dirne una: i danesi lasciano i loro bambini nelle culle fuori dai caffè, ché per loro l’importante è che siano ben protetti dal freddo. E non c’è cosa che offenda uno di loro più della domanda: “Ma non ha paura che qualcuno si porti via il neonato?”. La risposta, poi, infatti, sarà sempre la stessa, secca, tinta di una vanità poco celata: “Noi ci fidiamo gli uni degli altri”.
Ancora, l’Erasmus è trovarsi in mezzo ad una lezione di yoga. Ad una partita di calcetto femminile. È parlare lentamente in italiano ad una spagnola che non capisce bene l’inglese e rivelarle come molte parole del tuo dialetto siano identiche nella sua lingua. L’Erasmus sono le persone, soprattutto. Quelle con cui studi, con cui ti lamenti dei caffè lunghi, americani, del tempo che non migliora. Quelle con cui cerchi la luna gigante dietro le spesse nuvole del cielo di Danimarca, le persone con cui mesi prima avevi guardato le stelle, in una notte di fine settembre, ad un falò improvvisato (come tutto è improvvisato in un Erasmus) acceso su una bianchissima, adamantina, spiaggia del Baltico.

Viaggiare, così a lungo e non per il solo gusto di farlo, ti dona occhi nuovi (diceva qualcuno di nome Proust) con cui scrutare quello che vedrai in futuro e con cui valutare i pro e i contro di dove hai vissuto finora. Ma c’è di più: la parte più bella del viaggio consiste nel conquistare piccoli pezzettini di sé, un mattone sopra gli altri, uno per ogni giorno che passa. Salendo sul sellino di una bicicletta, imponendoti di frequentare il corso di una lingua scandinava parlata da appena cinque milioni di anime, facendo di conto convertendo le corone in euro (sulla tabellina del sette sono ritornata ferratissima), girovagando per il supermercato (le prime settimane, Google Translate alla mano) tentando di memorizzare i nomi di quello che metti nel carrello.

Perfino Mattarella ne ha fatto menzione nel suo discorso di fine anno: quella di essere europei oltre che italiani, francesi, tedeschi, danesi può ancora non essere solo una storia che ci piace raccontare a noi stessi, una favola con cui addormentarci mentre l’Europa (diciamoci la verità) continua, in un silenzio frastornante, ad aggiustare una crepa lì mentre una più profonda appare là. Il mercato unico, l’euro, Schengen, la libertà di movimento: i risultati – oggi più che mai scricchiolanti – di sessanta anni di europeismo compiuto sulla carta, sui trattati e i memorandum, lasciando indietro la necessità di costruire un’identità europea non per forza condivisa ma, quantomeno, più condivisibile. È un sogno gigante. Ma deve pur cominciare, da qualche parte. E lo fa così, facendoci studiare insieme: italiani, tedeschi, cechi, inglesi, francesi e ungheresi con le loro teste chine sui libri e i portatili, nelle aule studio della stessa Business School dell’università di una cittadina della Scandinavia. Qualcuno tra noi disturba chi gli sta accanto, quell’altro lo insulta di rimando con una parolaccia che ha appena imparato a dire in una lingua che non è la sua. Si danno una pacca sulla spalla, poi tornano ai loro assignment, dopo aver scucito un sorriso anche a tutti noi altri.

Alla fine degli esami brindiamo, in un locale qualunque di una città europea qualunque (non conta più essere ad Aarhus, a Varsavia o a Lisbona), ci promettiamo il prossimo incontro, una rivincita a beer-pong. “You know you’ll always have a spot in my town”, ci diciamo. Ci scattiamo l’ultima delle migliaia di foto fatte insieme.

Saliremo su un aereo mostrando solo la carta d’identità dai bordi smangiucchiati, perché chi di noi ha ancora bisogno di un passaporto per muoversi in Europa? Torneremo a casa, le valigie le disferemo storditi, tutto ci sembrerà diverso da prima. Il caffè, il vino, le sigarette, le lenzuola, la fila al supermercato.
In realtà, in un modo che forse solo tra anni sarò in grado di spiegare guardandomi indietro, post-truth nell’era dei post-Erasmus, diversi lo siamo (e lo saremo) noi, e nulla più.

di Margherita Cardinale