Tutto l’amore che c’è nella legge

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Il 21 luglio scorso, il Consiglio di Stato è stato al centro dell’attenzione dei media per due provvedimenti, rispettivamente una sentenza ed un parere, che segnano un piccolo passo avanti verso la nuova frontiera dei diritti civili in Italia.

Si tratta di provvedimenti che, nel loro piccolo, raccontano due piccole storie che meritano di essere ascoltate, perché parlano d’amore, anche se in linguaggio giuridico: amore verso la persona e verso i diritti e la loro parità.

La sentenza n. 03297 del 2016 riguarda una questione complessa tanto quanto le vicende che le hanno dato origine, trattando del delicatissimo problema (anche se a molti potrà non sembrare così) del finanziamento da parte delle Regioni delle spese necessarie alle coppie affette da infertilità assoluta per ricorrere alla fecondazione assistita di tipo eterologo.

Sinteticamente, nel caso di specie, i giudici di Palazzo Spada hanno deciso l’appello presentato dalla Regione Lombardia contro una decisione del TAR Lombardia n. 9944 del 2015, con cui è stata dichiarata l’illegittimità della delibera regionale che costringeva le coppie intenzionate a ricorrere alla PMA (procreazione medicalmente assistita) eterologa a pagare il costo intero della prestazione medica, mentre per l’omologa era (ed è) sufficiente il pagamento del ticket sanitario, essendo le altre spese coperte dalla Regione. L’appello è stato respinto e la sentenza del TAR interamente confermata.

Questa, però, è solo la fine della storia, che inizia tanto, tantissimo tempo fa, quando fu detto che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» e che la Repubblica italiana protegge la maternità e favorisce gli istituti necessari a questo scopo, perché la famiglia è il paradigma di tutte le formazioni sociali ove si svolge la personalità dell’individuo. Principi, sanciti in Costituzione (il riferimento, per chi ha meno familiarità con la nostra Carta fondamentale, è agli artt. 3, 31 e 2), alla base della sentenza Costituzionale n. 162 del 2014, altro tassello fondamentale di questa storia d’amore, perché solo dopo questa pronuncia è stato possibile per le strutture sanitarie pubbliche e private offrire trattamenti di PMA eterologa, prima vietati dall’art. 4, co. 3, della l. 40/2004.

La Consulta ha, in quella occasione, affermato il diritto di ricorrere alle procedure di PMA eterologa nel caso in cui sia stata accertata l’esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute, il relativo divieto costituisce violazione degli artt. 2, 29 e 31 Cost., non garantendo il diritto fondamentale alla piena realizzazione della vita privata familiare e di autodeterminazione in ordine alla medesima, con pregiudizio per le coppie colpite dalla patologia più grave, del diritto di formare una famiglia e costruire liberamente la propria esistenza.

In altre parole, l’accesso alla fecondazione eterologa è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse.

Sulla scorta proprio di questa sentenza, i giudici amministrativi hanno perciò concluso che «la determinazione regionale di distinguere la fecondazione omologa da quella eterologa, finanziando la prima e ponendo a carico degli assistiti la seconda, non risulta giustificata e […] realizza una disparità di trattamento lesivo del diritto alla salute delle coppie affette da sterilità o da infertilità assolute».

Di tutt’altro tipo è la storia che si cela dietro al parere n. 01695 del 2016 della Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato. Volendo parlare una lingua per molti difficile, si tratta del parere favorevole allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri recante “Disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76.”. Per essere, invece, più chiari, si tratta del via libera da parte del Consiglio di Stato ad un provvedimento senza il quale la c.d. legge Cirinnà rimarrebbe priva di concreta effettività, perché consente l’immediato adeguamento – assolutamente necessario – della disciplina degli archivi dello stato civile alla normativa relativa alle Unioni Civili.

Dietro questo parere c’è la storia di durissime lotte, a volte violente, portate instancabilmente avanti da persone dall’ammirevole coraggio, per fare in modo che anche le coppie omosessuali fossero riconosciute da uno Stato che per troppo tempo si è dimostrato vittima di una mentalità bigotta e retrograda. La parte più romantica di questa storia d’amore sta tutta nel ragionamento che il Consiglio di Stato sviluppa attorno alla figura dell’obiezione di coscienza, richiamata di recente da alcuni Sindaci, per la quale – si è detto – sarebbe possibile per il Sindaco, richiesto di registrare l’Unione, rifiutare di procedere per questioni di coscienza.

In maniera sintetica ma quantomai efficace, il Consiglio di Stato ha sul punto richiamato un principio fondamentale del diritto amministrativo, il principio di legalità, per cui la Pubblica Amministrazione può fare solo ciò che la Legge espressamente le consente di fare.

La legge sulle Unioni Civili non prevede in alcun modo la possibilità per i sindaci di fare obiezione di coscienza, anzi, come viene sottolineato nel parere, «dai lavori parlamentari risulta che un emendamento volto ad introdurre per i sindaci l’obiezione di coscienza sulla costituzione di una unione civile è stato respinto dal Parlamento, che ha così fatto constare la sua volontà contraria, non aggirabile in alcun modo nella fase di attuazione della legge».

Dunque, qualora un sindaco dovesse rifiutarsi di registrare un’unione civile (potendo, peraltro, delegare il compito ad altro Ufficiale di stato civile), non solo non si potrebbe dire che stia esercitando un proprio diritto, ma si profilerebbe senza alcuna ombra di dubbio anche una fattispecie di reato: rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.).

Questi due provvedimenti, il cui contenuto è stato volutamente riportato in maniera, per così dire, poco ortodossa, devono essere veramente letti come una bella storia d’amore, una storia d’amore istituzionale, se si vuole. Come dicono i Poeti, il contrario dell’amore non è l’odio, ma la paura: soprattutto in un periodo per noi tanto buio, dove il sentimento generale in Italia come in Europa sembra essere la paura, dove il desiderio di isolarsi e chiudersi agli altri ed al nuovo rischia di avere la meglio, è bello vedere che comunque lo Stato è capace di andare avanti in un’altra direzione.

Per una volta la legge difende l’amore, vedetela così.